|
LE BATTAGLIE DI PLATEA E MICALESeconda parte
60) Anch'essi, massa urlante di uomini, si lanciarono all'attacco come per fare un sol boccone dei Greci. Pausania, premuto dalla cavalleria, spedì agli Ateniesi un cavaliere col seguente messaggio: "Ateniesi, la lotta è giunta al momento decisivo, o la Grecia sarà libera o ridotta in schiavitù; noi Spartani e voi Ateniesi siamo stati traditi dagli alleati, fuggiti la notte scorsa. Ora è deciso quel che dovremo fare da questo momento: difenderci meglio che possiamo e coprirci a vicenda. Se la cavalleria nemica si fosse mossa all'inizio solo contro di voi, avremmo dovuto aiutarvi noi e quelli che con noi non tradiscono la Grecia, i Tegeati; ma si è lanciata tutta contro di noi e quindi è giusto che siate voi a soccorrere la parte in maggiore difficoltà. Se tuttavia vi è capitato qualcosa che vi rende impossibile aiutarci, mandateci almeno, per favore, gli arcieri. Sappiamo che nella presente guerra siete i più impegnati: e perciò presterete orecchio alla nostra richiesta". 61)Ricevuto questo messaggio, gli Ateniesi partirono per soccorrerli e garantire loro il massimo appoggio. E già erano in marcia quando furono assaliti dai Greci che stavano col re ed erano schierati di fronte a loro; sicché, molestati dagli attacchi, non potevano più accorrere in aiuto degli Spartani. E così Spartani e Tegeati, che erano rispettivamente cinquantamila, compresa la fanteria leggera, e tremila (i Tegeati non si separavano un solo momento dagli Spartani), rimasti soli, provvidero ai sacrifici intendendo scontrarsi con Mardonio e l'esercito che avevano davanti. Ma gli auspici non risultarono favorevoli e parecchi di loro nel frattempo caddero e molti di più venivano feriti: i Persiani, infatti, avendo serrato compatti gli scudi, scagliavano nugoli di frecce, senza risparmio; tanto che, visti gli Spartiati in difficoltà e i sacrifici che non riuscivano, Pausania si voltò verso l'Eraion dei Plateesi e invocò la dea pregandola di non frustrare le loro attese. 62) Ancora stava invocando la dea, quando per primi, davanti a tutti, i Tegeati scattarono contro i barbari; e subito dopo la preghiera di Pausania finalmente agli Spartani riuscirono propizi i sacrifici che stavano compiendo. Un attimo dopo correvano anch'essi contro i Persiani, e i Persiani li affrontarono dopo aver deposto gli archi. Il primo scontro si ebbe intorno alla barriera di scudi. Quando essa cadde, si accese una mischia terribile ormai proprio accanto al tempio di Demetra, e durò a lungo, finché vennero al corpo a corpo; i barbari, infatti, afferravano le lance e le spezzavano. Per tenacia e vigore i Persiani non erano inferiori, ma non avevano armatura pesante e inoltre non erano pari agli avversari per addestramento specifico e per tecnica di combattimento. Si gettavano allo sbaraglio, da soli, a dieci per volta, in gruppi più o meno numerosi, piombavano sugli Spartiati e ne venivano massacrati. 63) Dove si trovava personalmente Mardonio, che combatteva su un cavallo bianco in mezzo al fior fiore dei Persiani, i mille migliori, lì soprattutto si premeva sugli avversari; finché ci fu Mardonio, essi tennero duro e nel difendersi abbattevano molti Spartani; ma quando Mardonio perse la vita e caddero gli uomini attorno a lui, che erano i più forti, allora anche gli altri volsero le spalle e cedettero agli Spartani. Moltissimo li danneggiava l'equipaggiamento, privo di armi pesanti: si battevano armati alla leggera contro degli opliti! 64) Quel giorno, conforme ai vaticini dell'oracolo, si compì per gli Spartani la vendetta su Mardonio per l'uccisione di Leonida, quel giorno Pausania figlio di Cleombroto, figlio di Anassandride, riportò la vittoria più bella che noi conosciamo. I suoi antenati li ho già menzionati nel discendere fino a Leonida: sono gli stessi. Mardonio cadde ucciso da Arimnesto, uno Spartano di valore, che morì in tempi successivi alle guerre mede in un attacco con trecento uomini a Steniclero durante una guerra contro tutti i Messeni, e con lui caddero anche i trecento. 65)A Platea i Persiani, quando furono messi in rotta dagli Spartani, fuggirono in totale disordine verso il loro accampamento e verso il fortilizio di legno che si erano costruiti nel territorio di Tebe. Una cosa mi sorprende: nessuno dei Persiani che combatterono presso il sacro bosco di Demetra risulta essere entrato all'interno dell'area del santuario né esservi morto; i più caddero nei dintorni del tempio in terreno non consacrato. La mia opinione, se è il caso di avere opinioni sulle cose divine, è che sia stata proprio la dea a non ammetterveli dentro, perché avevano incendiato il suo santuario di Eleusi. Tale fu dunque l'esito di questa battaglia. 66) Artabazo figlio di Farnace fin dall'inizio non condivideva l'idea del re di lasciare Mardonio in Grecia; e dopo, malgrado le sue insistenze per evitare lo scontro, non ottenne nulla. Ed ecco come si comportò lui personalmente, insoddisfatto delle iniziative di Mardonio. Aveva ai suoi ordini una schiera non esigua, quasi quarantamila uomini: quando scoppiò la battaglia, consapevole della piega che avrebbero preso gli avvenimenti, si mise alla testa dei suoi uomini in formazione di combattimento, dopo aver dato ordine a tutti di dirigersi dovunque li conducesse, con la stessa rapidità che avessero scorta in lui. Impartite queste disposizioni, guidò dunque le sue truppe come per affrontare i nemici; precedendole in marcia, vide che i Persiani stavano già fuggendo. Allora non fece più avanzare i suoi uomini nello stesso ordine, ma corse via in fuga, più velocemente possibile, non verso la cinta di legno né verso le mura di Tebe, bensì verso la Focide, con l'intenzione di raggiungere l'Ellesponto al più presto. 67) Essi dunque piegarono in quella direzione. Mentre gli altri Greci schierati col re si comportavano di proposito da vili, i Beoti lottarono a lungo contro gli Ateniesi. In effetti i Tebani filomedi si impegnarono non poco nella battaglia, senza alcuna codardia, tanto che trecento di loro, i più illustri e più coraggiosi, caddero sul posto uccisi dagli Ateniesi. Quando anch'essi voltarono le spalle, puntarono, ripiegando, verso Tebe ma per una strada diversa rispetto ai Persiani e a tutto il resto dell'armata, che fuggì senza aver combattuto con nessuno e senza aver compiuto nulla di rilevante. 68) Per me è chiaro che tutta la forza dei barbari stava nei Persiani, se anche allora costoro si dileguarono prima ancora di scontrarsi coi nemici, solo perché vedevano ritirarsi i Persiani. Insomma, scapparono tutti tranne la cavalleria, e in particolare la cavalleria beotica; questa si rese assai utile ai fuggitivi rimanendo sempre in prossimità dei nemici e tenendo lontano dai compagni in rotta i Greci. 69) I quali, ormai vincitori, inseguivano gli uomini di Serse, braccandoli e facendone strage. Nel bel mezzo di questo frangente giunse la notizia ai Greci fermi presso l'Eraion e rimasti estranei alla battaglia che la lotta si era accesa e che stavano vincendo le truppe di Pausania; allora, udito ciò, partirono, senza essersi disposti in ordine di battaglia: quelli di Corinto fra il declivio e le colline lungo la strada che porta dritta al tempio di Demetra, quelli di Megara e di Fliasa attraverso la pianura per la via più liscia. Quando i Megaresi e i Fliasi furono vicini ai nemici, i cavalieri tebani, comandati da Asopodoro figlio di Timandro, vedendoli avanzare caoticamente, spinsero i cavalli contro di loro. Al primo urto ne abbatterono seicento, gli altri li travolsero via e li inseguirono verso il Citerone. 70) Questi dunque caddero senza gloria alcuna. I Persiani e tutti gli altri, corsi a rifugiarsi dietro il fortilizio di legno riuscirono ad arrampicarsi sugli spalti prima dell'arrivo degli Spartani; una volta saliti, rinforzarono meglio che potevano lo steccato. Quando sopraggiunsero gli Spartani, si accese una lotta piuttosto accanita intorno al muro. In realtà finché non arrivarono gli Ateniesi i barbari si difesero bene ed ebbero nettamente la meglio sugli Spartani, che non erano pratici di questo genere di lotta. Ma quando arrivarono gli Ateniesi, allora la battaglia per la cinta si fece aspra e durò a lungo. Infine, grazie al loro valore e alla loro tenacia, gli Ateniesi misero il piede sul baluardo e aprirono una breccia, attraverso la quale i Greci si riversarono dentro. Nella cinta irruppero per primi i Tegeati, e furono loro a conquistare la tenda di Mardonio, a impadronirsi di quel che vi era dentro e in particolare della greppia per cavalli che è tutta di bronzo e merita di essere vista. I Tegeati consacrarono poi questa greppia di Mardonio nel tempio di Atena Alea, mentre tutto il resto su cui misero le mani lo ammassarono nel bottino comune dei Greci. Una volta caduto lo steccato, i barbari non serrarono più le file: nessuno di loro oppose più resistenza, angosciati com'erano, pieni di terrore, bloccati in poco spazio, in molte decine di migliaia. Ai Greci fu facile massacrarli, al punto che su trecentomila soldati, levando i quarantamila che Artabazo aveva portato con sé in ritirata, dei restanti non sopravvissero neppure in tremila. Complessivamente, invece, nella battaglia caddero novantuno Lacedemoni di Sparta, sedici Tegeati, cinquantadue Ateniesi. 71) Si distinsero, fra i barbari, la fanteria persiana, i cavalieri Saci, e, individualmente, si dice, Mardonio. Tra i Greci, con tutto che sia Tegeati sia Ateniesi si siano comportati benissimo, la palma del valore spetta agli Spartani. Non ho altro elemento per dimostrarlo, giacché tutti vinsero nel loro settore, se non che gli Spartani dovettero scontrarsi contro la parte più forte e la sgominarono. Largamente il migliore, a nostro parere, fu Aristodemo, quello su cui gravavano vergogna e disprezzo per essere l'unico dei trecento scampato alle Termopili. Dopo di lui si segnalarono Posidonio, Filocione e Amonfareto, Spartiati. Eppure in un pubblico dibattito su chi di loro avesse meritato di più in campo, gli Spartiati presenti ai fatti espressero il parere che Aristodemo aveva compiuto grandi gesta lottando e uscendo dallo schieramento nel palese desiderio di morire a causa dell'accusa che pesava su di lui. Invece Posidonio si era comportato da eroe pur non volendo morire; ecco perché andava giudicato il migliore. Si obietterà: dicevano così anche per invidia; fatto sta che tutti i caduti di quella battaglia da me ricordati, tranne Aristodemo, ricevettero onori; Aristodemo no, non ebbe onori perché voleva morire per la ragione che ho detto. 72) Questi, dunque, furono i più celebrati eroi di Platea. Callicrate, in realtà, perì fuori della battaglia; nell'esercito era entrato come l'uomo più bello dei Greci di allora, non solo fra gli Spartani ma anche fra tutti gli Elleni. Mentre Pausania provvedeva ai sacrifici, Callicrate, fermo al suo posto, fu colpito al fianco da una freccia. E mentre gli altri combattevano, lui, portato via, lottava con la morte e diceva ad Arimnesto, un Plateese, che non si rammaricava di morire per la Grecia, ma di non aver fatto uso delle armi, di non aver compiuto - e lo aveva tanto sperato! - nessun gesto degno di lui. 73) Fra gli Ateniesi si distinse, a quanto si racconta, Sofane figlio di Eutichide, del demo di Decelea, di quei Decelei già autori di una impresa preziosa per l'eternità, a dire degli stessi Ateniesi. Anticamente infatti, quando i Tindaridi per riprendersi Elena invasero il territorio dell'Attica con un ingente esercito e mettevano a soqquadro i demi non sapendo dove fosse riparata Elena, si narra che allora i Decelei, altri sostengono Decelo in persona, mal tollerando la tracontanza di Teseo e timoroso per la sorte dell'intero paese degli Ateniesi, rivelò ogni cosa ai Tindaridi e li guidò contro Afidna, che poi Titaco, uno del posto, mise a tradimento nelle mani dei Tindaridi. Dall'epoca di questa vicenda immunità e proedria sono garantite in Sparta agli abitanti di Decelea e tale è la regola ancora oggi, tanto che persino nel corso della guerra scoppiata molti anni più tardi fra Ateniesi e Peloponnesiaci, mentre gli Spartani devastavano il resto dell'Attica, Decelea non la toccarono. 74) Su Sofane, appartenente a questo demo e risultato allora il più valoroso fra gli Ateniesi, circolano due diverse versioni leggendarie. La prima è che portava un'ancora di ferro legata alla cintura della corazza con una catena di bronzo, e tutte le volte che arrivava a contatto dei nemici, la gettava a terra, perché i nemici piombando su di lui non potessero smuoverlo da dove era schierato. Quando poi i suoi antagonisti si volgevano in fuga, era calcolato che si caricasse l'ancora e li inseguisse così. Questa è la prima versione; nell'altra, che contraddice la precedente, portava un'ancora come insegna sul suo scudo sempre in movimento e mai fermo, e non un'ancora di ferro fissata alla corazza. 75) C'è un'ulteriore magnifica impresa compiuta da Sofane, la volta che gli Ateniesi assediavano l'isola di Egina e lui sfidò a duello e uccise l'Argivo Euribate, un vincitore nel pentathlon. Anni dopo a Sofane, uomo di provato valore, toccò di morire mentre comandava gli Ateniesi assieme a Leagro figlio di Glaucone, ucciso dagli Edoni a Dato, in una battaglia per il possesso delle miniere d'oro. 76) Non appena i Greci ebbero sgominato i barbari a Platea, si avvicinò a loro una fuggiasca; appresa la disfatta persiana e la vittoria dei Greci, essa, che era una concubina del Persiano Farandate figlio di Teaspi, ornatasi d'oro a profusione, lei e le sue ancelle, e con la veste più elegante di cui disponeva scese dal suo carro e si avvicinò agli Spartani, ancora impegnati nel massacro; e vedendo che a dirigere tutte quelle operazioni era Pausania, di cui già conosceva nome e patria per averli sentiti ripetere più volte, lo individuò e stringendogli le ginocchia disse: "Re di Sparta, sono tua supplice: non fare di me una schiava del bottino; tu già mi hai beneficato sterminando questa gente che non rispetta né i dèmoni né gli dèi. Io sono originaria di Cos, figlia di Egetoride e nipote di Antagora. Il Persiano mi aveva perché mi portò via da Cos con la forza". Pausania le rispose: "Fatti coraggio, donna, perché sei una supplice e tanto più se dici la verità e sei figlia di Egetoride di Cos, l'ospite a me più strettamente legato fra tutti gli abitanti di quel paese". Disse così e l'affidò per il momento agli efori lì presenti; più tardi la fece accompagnare a Egina, dove lei stessa desiderava recarsi. 77) Subito dopo la partenza della donna, giunsero i Mantinei, a cose ormai compiute: si resero conto di essere arrivati in ritardo per la battaglia, se ne dolsero a gran voce e si dichiararono meritevoli di autopunirsi. Saputo che i Medi di Artabazo erano in fuga, volevano inseguirli fino alla Tessaglia; ma gli Spartani non permisero l'inseguimento dei fuggiaschi. I Mantinei, rientrati in patria, cacciarono dal paese i comandanti dell'esercito. Dopo i Mantinei, giunsero gli Elei, i quali, esattamente come i Mantinei, se ne andarono dopo molte espressioni di rammarico; anch'essi poi, tornati a casa, esiliarono i propri comandanti. E questo è tutto su Mantinei ed Elei. 78) A Platea, nel campo degli Egineti c'era Lampone figlio di Pitea, uno dei personaggi più illustri di Egina; egli se ne venne da Pausania con un discorso più che empio; si avvicinò a lui tutto zelante e gli disse: "Figlio di Cleombroto, hai compiuto un'impresa straordinariamente grande e bella; a te il dio ha concesso di salvare la Grecia e di procurarti la gloria più alta che si conosca sin qui fra i Greci. E allora completa le tue gesta, perché una fama ancora maggiore ti circondi e perché in futuro qualunque barbaro si guardi bene dall'intraprendere folli imprese contro i Greci. Quando Leonida cadde alle Termopili, Mardonio e Serse gli tagliarono la testa e la infissero in cima a una picca; se tu gli restituirai l'offesa, sarai lodato intanto da tutti gli Spartiati e poi anche dagli altri Greci: perché impalando Mardonio vendicherai tuo zio Leonida". 79) Lampone diceva questo, convinto di fargli piacere, invece Pausania replicò: "Ospite di Egina, apprezzo la tua premurosa attenzione, ma non hai detto una cosa intelligente. Prima hai esaltato me, la mia patria, la mia opera e poi ci hai tratto giù nel nulla, proponendomi di infierire su un cadavere e sostenendo che, se lo facessi, acquisterei più fama. Sono azioni degne dei barbari, non certo dei Greci! E anche ai barbari le rimproveriamo. Mi auguro di non piacere mai, per un gesto del genere, agli Egineti e a chi gode di simili nefandezze; a me basta soddisfare gli Spartiati, agendo e anche parlando con religiosa pietà. Quanto a Leonida, che mi inviti a vendicare, io affermo che è stato vendicato ampiamente: lui e gli altri caduti alle Termopili ricevono l'omaggio di innumerevoli vite nemiche. Tu non ti avvicinare più a me con simili discorsi, i tuoi consigli tienteli per te; e ringrazia se te ne vai senza danni". 80) E quello, udita la risposta, si allontanò. Pausania ordinò con un bando che nessuno toccasse il bottino e comandò agli iloti di raccogliere gli oggetti preziosi. Gli iloti, sparpagliandosi per l'accampamento vi trovarono tende decorate con oro e argento, letti rivestiti d'oro e d'argento, crateri, calici e altre coppe d'oro. Sui carri trovarono sacchi che si rivelarono pieni di lebeti d'oro e d'argento. I cadaveri a terra li spogliarono dei braccialetti, delle collane e delle corte spade che erano d'oro; nessuno si curò delle vesti ricamate. In quella occasione gli iloti sottrassero molti oggetti e li vendettero agli Egineti, ma molti anche ne esibirono, quanti non era possibile nascondere; proprio da lì ebbero origine le grandi fortune degli Egineti, i quali comprarono dagli iloti l'oro come se fosse bronzo. 81) Ammassate le ricchezze, ne tolsero la decima per il dio di Delfi: gli fu così dedicato il tripode d'oro che sta sul serpente di bronzo a tre teste vicino all'altare. Prelevarono la decima anche per il dio di Olimpia, ricavandone uno Zeus di bronzo alto dieci cubiti, e per il dio dell'Istmo; grazie ad essa fu eretto un Posidone di bronzo di sette cubiti. Fatte queste detrazioni, si spartirono il resto, le concubine dei Persiani, l'oro, l'argento e gli altri oggetti preziosi, il bestiame, prendendo ciascuno secondo i meriti. Nessuno dice quanto fu donato ai maggiori eroi di Platea, ma credo che anche essi abbiano ricevuto la loro parte. A Pausania fu riservato e dato dieci di tutto: dieci donne, cavalli, talenti, cammelli e così anche per il resto. E accadde, si narra, anche questo. 82) Nel fuggire dalla Grecia Serse aveva lasciato la propria tenda a Mardonio. Pausania dunque, vedendo la tenda e gli arredi di Mardonio, l'oro, l'argento e le splendide cortine ricamate, ordinò ai fornai e ai cuochi di preparare un pasto come per Mardonio. Gli incaricati obbedirono e allora Pausania, scorgendo letti d'oro e d'argento con preziose imbottiture, tavolini d'oro e d'argento, tutto uno sfarzoso apparato da banchetto, sbalordito dal lusso dispiegato davanti ai suoi occhi, ordinò, per divertimento, ai suoi servitori di allestire un pasto alla spartana. Il pranzo fu preparato e, poiché grande era la differenza, Pausania scoppiò a ridere; e mandò a chiamare gli strateghi dei Greci ai quali, quando furono lì, disse indicando le due tavole imbandite: "Greci, vi ho convocato per questa ragione: volevo mostrarvi l'imbecillità del Medo, che, disponendo di un simile tenore di vita, si è mosso contro di noi, che ne abbiamo uno così miserabile, per portarcelo via!". Questo Pausania avrebbe detto agli strateghi dei Greci. 83) In epoca successiva a tali avvenimenti anche parecchi Plateesi rinvennero cofani pieni d'oro e d'argento e di altri preziosi. E ancor più tardi ecco cos'altro si vide. Quando ormai gli scheletri avevano perduto le carni, una volta che, appunto, i Plateesi radunavano le ossa in un luogo solo, fu trovata una scatola cranica priva di suture, formata di una unica calotta ossea, e venne alla luce anche una mascella che nella mandibola superiore aveva denti di un unico pezzo, anteriori e posteriori formati di un unico osso; e affiorò lo scheletro di un uomo alto cinque cubiti. 84) Il giorno dopo la battaglia fu fatto sparire il cadavere di Mardonio; da chi non saprei dirlo con certezza, ma già di molte persone, e di diversa provenienza, ho sentito raccontare che avrebbero seppellito Mardonio; e so che molti per questa ragione hanno avuto ricchi doni da Artonte, figlio di Mardonio. Chi di loro sia stato a trafugare e a seppellire il corpo di Mardonio non riesco ad appurarlo con certezza. Anche su Dionisofane di Efeso corre voce che abbia sepolto Mardonio. Così insomma Mardonio ebbe sepoltura. 85) I Greci, dopo essersi spartito il bottino a Platea, onorarono i propri morti ciascuno per conto proprio. Gli Spartani allestirono tre tombe; in una deposero gli ireni, fra i quali c'erano anche Posidonio, Amonfareto, Filocione e Callicrate. Se in una delle tombe c'erano gli ireni, nella seconda c'erano gli altri Spartiati e nella terza gli iloti. Gli Spartani si regolarono così, i Tegeati invece provvidero per conto loro a inumare tutti assieme i propri morti, e lo stesso fecero gli Ateniesi, nonché i Megaresi e i Fliasi per quelli sterminati dalla cavalleria. Le fosse di tutti costoro furono piene. Quanto alle tombe degli altri Greci ugualmente visibili a Platea, ho saputo che essi, vergognandosi per l'assenza dalla battaglia, eressero tumuli vuoti per i posteri; in effetti c'è laggiù un sepolcro che apparterrebbe agli Egineti, costruito, mi dicono, dieci anni dopo gli avvenimenti dal cittadino di Platea Cleade figlio di Autodico, prosseno degli Egineti, su loro richiesta. 86) Appena seppelliti i morti a Platea, i Greci tennero consiglio e decisero di muovere contro Tebe e di reclamare la consegna dei Tebani schieratisi coi Medi, a cominciare da Timagenida e da Attagino, che erano tra i capi più in vista. Se non lo facevano, essi non si sarebbero ritirati prima di aver distrutto la città. Deciso questo, allora, dieci giorni esatti dopo la battaglia arrivarono a Tebe e posero l'assedio, intimando la consegna degli uomini. Poiché i Tebani si rifiutavano di cederli, devastavano la loro campagna e attaccavano le mura. 87) Non smettevano un istante di provocare danni; al ventesimo giorno Timagenida disse ai Tebani: "Tebani, visto che i Greci hanno deciso così, di non togliere l'assedio prima o di aver conquistato Tebe o che voi ci rimettiate nelle loro mani, ebbene, che la terra beotica non abbia più a soffrire a causa nostra. Se richiedono noi per pretesto, ma in realtà vogliono soldi, versiamogli denaro dalle casse comuni, giacché non ci siamo schierati solo noi coi Medi, ma tutti assieme; se invece ci assediano perché intendono avere noi veramente, allora ci consegneremo per un pubblico confronto". Il suo discorso sembrò buono e opportuno, e subito i Tebani per mezzo di un araldo inviato a Pausania fecero sapere di essere disposti a consegnare gli uomini. 88) Appena fu raggiunto l'accordo a queste condizioni, Attagino scappò dalla città; i suoi figli furono trascinati davanti a Pausania che li prosciolse da ogni accusa, dichiarando che dei bambini non erano corresponsabili della connivenza col Persiano. Quanto agli altri uomini consegnati dai Tebani, loro credevano di affrontare un pubblico dibattimento ed erano convinti di cavarsela a suon di denaro; Pausania invece, quando li ebbe in mano sua, sospettando proprio queste loro speranze, congedò l'intero esercito degli alleati, trasferì gli imputati a Corinto e li fece giustiziare. Tanto accadde a Platea e ai Tebani. 89) Artabazo figlio di Farnace, in fuga da Platea, era ormai lontano. Quando arrivò in Tessaglia, lo invitarono a un pranzo d'ospitalità e gli chiedevano notizie del resto dell'armata, nulla sapendo dei fatti di Platea. Artabazo capì che, se accettava di raccontare tutta la verità sulle battaglie, lui e il suo esercito rischiavano di fare una brutta fine; pensava che chiunque, venendo a conoscere i fatti, li avrebbe aggrediti; così ragionando, ai Focesi non rivelò nulla e ai Tessali disse: "Tessali, lo vedete: mi precipito verso la Tracia per la strada più breve, con urgenza, distaccato dall'esercito assieme a questi uomini per un affare importante. Sulle mie tracce si sta muovendo Mardonio in persona con la sua armata e dovete aspettarvelo qui. Ospitatelo e mostratevi bene intenzionati. Se lo farete, un giorno non ve ne pentirete". Detto ciò, rapidamente condusse il suo esercito attraverso la Tessaglia e la Macedonia, dritto verso la Tracia, con autentica fretta e tagliando verso l'interno. E giunse a Bisanzio, dopo aver perso parecchi dei suoi, fatti a pezzi dai Traci lungo il percorso e stremati dalla fame e dalla fatica. Da Bisanzio passò lo stretto con delle navi. Egli, dunque, tornò così in Asia. 90) Nello stesso giorno della disfatta di Platea, venne a cadere anche la battaglia di Micale, in Ionia. Infatti, mentre i Greci, venuti con la flotta agli ordini dello Spartano Leotichida, stazionavano a Delo, giunsero presso di loro dei messaggeri provenienti da Samo, Lampone figlio di Trasicle, Atenagora figlio di Archestratide ed Egesistrato figlio di Aristagora, inviati dai Sami all'insaputa dei Persiani e del tiranno Teomestore figlio di Androdamante, a suo tempo insediato tiranno di Samo dai Persiani. Quando furono davanti agli strateghi, Egesistrato disse molte cose e di vario genere: che gli Ioni, al solo vederli, si sarebbero ribellati ai Persiani, che i barbari non avrebbero retto; che se poi avessero voluto resistere, non c'era preda da trovarsi altrettanto sostanziosa. In nome degli dèi comuni li esortava a salvare dei Greci dalla schiavitù, a respingere il barbaro. Sosteneva che questo per loro era un'inezia, perché le navi dei barbari tenevano male il mare e in battaglia non reggevano il confronto con quelle greche. Se poi gli strateghi sospettavano che li si volesse attirare in una trappola, essi erano disposti a farsi condurre come ostaggi sulle loro navi. 91) Poiché l'ospite di Samo molto insisteva con le sue implorazioni, Leotichida, vuoi che volesse saperlo per trarne un presagio, vuoi per ispirazione divina, gli chiese: "Ospite di Samo, come ti chiami?". E quello rispose: "Egesistrato". Allora Leotichida, troncando qualunque ulteriore discorso Egesistrato si accingesse a fare, dichiarò: "Accetto il presagio del tuo nome, ospite di Samo. E tu vedi di partire assieme a questi che sono qui con te dopo averci data garanzia che i Sami si impegneranno a fondo in questa alleanza". 92) Così disse e aggiunse alle parole i fatti: i Sami giurarono subito fedeltà e alleanza coi Greci. Quindi gli altri ambasciatori se ne andarono; ma Leotichida, considerando un presagio il suo nome, invitò Egesistrato a seguirlo nella flotta. I Greci, dopo essersene astenuti per quel giorno, fecero sacrifici augurali il successivo, servendosi come indovino di Deifono, figlio di Evenio, di Apollonia - Apollonia sul Golfo Ionico – 93) Al cui padre Evenio era accaduto il fatto seguente. In questa città di Apollonia ci sono greggi sacre al Sole; di giorno pascolano lungo un fiume, che scorre giù dal monte Lacmone attraverso la regione di Apollonia e sfocia in mare presso il porto di Orico, di notte, invece, sono custodite, un anno per ciascuno, da cittadini scelti fra i più insigni per ricchezza e nascita. In effetti gli Apolloniati tengono in gran conto queste greggi in seguito a un vaticinio; esse trovano ricovero, di notte, in una grotta fuori città. Là appunto, una volta, le sorvegliava, prescelto per tale compito, il nostro Evenio. Ma a un certo punto, mentre era di guardia si addormentò, dei lupi entrarono nella grotta e uccisero una sessantina di animali. Lui, quando se ne accorse, se ne stette zitto e non lo disse a nessuno, intenzionato a comprarne degli altri e a sostituirli. Ma non sfuggì agli Apolloniati quanto era accaduto; come lo seppero, trascinarono Evenio in tribunale e lo condannarono a essere privato della vista per essersi addormentato mentre era di guardia. Dopo l'accecamento di Evenio, subito dopo, gli animali non partorivano più e la terra, parimenti, non produceva più frutti. A Dodona e a Delfi, quando interrogarono i profeti sulla causa del malanno in atto, il responso fu che avevano ingiustamente privato della vista Evenio, il guardiano delle sacre greggi: erano stati proprio gli dèi a mandare i lupi e ora non avrebbero smesso di vendicare Evenio, finché essi non avessero scontata la pena scelta e ritenuta equa da Evenio stesso. Compiuta questa riparazione, gli dèi avrebbero fatto a Evenio un dono tale che molte persone lo avrebbero considerato felice per esso. 94) Tali furono i responsi. Gli Apolloniati li tennero segreti e affidarono ad alcuni cittadini il compito di mandarli a buon fine. E agirono così: una volta che Evenio stava seduto su una seggiola, vennero ad accomodarsi accanto a lui e parlarono di varie cose, finché arrivarono a condolersi della sua disgrazia. Guidando il discorso in questa direzione gli chiesero quale riparazione avrebbe chiesto se gli Apolloniati si inducevano a rimediare al male fatto. E lui, che nulla aveva udito dell'oracolo, fece la sua scelta, indicò le condizioni: dovevano regalargli terreni - e nominò i due cittadini che sapeva possedere i due lotti migliori di Apollonia - e inoltre una casa, la più bella che conosceva in città; insomma, una volta entrato in possesso di questi beni, da quel momento la sua collera sarebbe cessata e questa soddisfazione sarebbe stata sufficiente. Così parlò; e gli Apolloniati che gli erano seduti accanto replicarono: "Evenio, questa riparazione, gli Apolloniati te la concedono, per l'accecamento, come vogliono gli oracoli". Lui per questo, quando gli ebbero spiegata tutta la faccenda, si rammaricò, sentendosi ingannato. Ma quelli comprarono i beni dai rispettivi proprietari e glieli donarono. Dopodiché, subito, Evenio ottenne una naturale capacità profetica, tale da diventarne persino famoso. 95) Figlio di questo Evenio, Deifono, portato dai Corinzi, era l'indovino dell'esercito. Però ho pure sentito dire che Deifono assumeva incarichi qua e là per la Grecia, usurpando il nome di Evenio, senza esserne il figlio. 96) I Greci, quando i sacrifici diedero esito favorevole, salparono da Delo in direzione di Samo. Una volta giunti di fronte a Calami, in Samo, ormeggiarono all'altezza del santuario di Era che vi sorge, e fecero i preparativi per la battaglia navale. Ma i Persiani, informati del loro approssimarsi, presero a loro volta il largo verso il continente con le navi rimaste; quelle fenicie le avevano già congedate. In effetti, pensando di non essere altrettanto forti, avevano deciso in consiglio di non combattere sul mare. Si ritiravano dunque verso il continente per trovarsi sotto la protezione della loro fanteria, di stanza a Micale, la quale, lasciata lì dal resto dell'esercito per ordine di Serse, controllava la Ionia; erano sessantamila uomini agli ordini di Tigrane, che si segnalava fra i Persiani per prestanza e statura. I comandanti della flotta decisero dunque di mettersi sotto la protezione di questo contingente, di tirare in secco le navi e di costruirsi tutt'intorno un baluardo, a protezione delle navi e come riparo per gli uomini stessi. Presa questa decisione, salparono. 97) Quando, passando di fronte al santuario delle Potnie a Micale, furono giunti a Gesone e a Scolopenta, dove sorge un tempio di Demetra Eleusinia, edificato da Filisto figlio di Pasicle che aveva seguito Neleo figlio di Codro verso la fondazione di Mileto, allora trassero in secca le navi e le circondarono con uno sbarramento di pietre e tronchi - tagliarono alberi da frutta -, poi piantarono pali intorno al muro. Ed erano pronti sia a sostenere l'assedio sia a vincere in battaglia. Si preparavano in effetti in vista di entrambe le soluzioni. 98) I Greci, quando seppero che i barbari si erano involati verso il continente, si indispettirono, con la sensazione che gli fossero sfuggiti di mano, ed erano incerti sul da farsi, se tornare a casa o far vela verso l'Ellesponto. Infine decisero di non fare né l'una cosa né l'altra, e di puntare invece sul continente. Preparate dunque le scalette e quanto altro era necessario in vista di una battaglia navale, si diressero verso il Micale. Giunti vicini al campo nemico, poiché nessuno li affrontava apertamente e anzi vedevano navi tratte a riva al riparo di un muro e fanti in gran numero allineati lungo la spiaggia, allora per cominciare Leotichida, bordeggiando il più possibile vicino alla spiaggia, per mezzo di un araldo lanciò agli Ioni un messaggio, che diceva: "Uomini della Ionia, quanti di voi sono a portata di voce, sentite quello che vi dico, tanto i Persiani non capiranno nulla dei moniti che vi rivolgo. Quando avrà luogo la battaglia, ci si ricordi prima di tutto della libertà, e poi della parola d'ordine: Era. E questo chi ha ascoltato lo riferisca a chi non l'ha udito". L'intenzione di tale iniziativa era la stessa di Temistocle all'Artemisio: il messaggio, sfuggito ai Persiani, doveva persuadere gli Ioni, oppure, riferito ai barbari, doveva indurli a non fidarsi dei Greci. 99) Dopo l'istigazione di Leotichida, ecco la seconda mossa dei Greci: accostarono le navi e sbarcarono sulla spiaggia. E mentre essi ordinavano le file, i Persiani, a vedere che i Greci si preparavano per la battaglia e avevano lanciato esortazioni agli Ioni, sospettarono che i Sami fossero in connivenza coi Greci e li disarmarono. In effetti, quando a bordo delle navi barbare erano arrivati dei prigionieri ateniesi, cioè quelli rimasti in Attica e catturati dai soldati di Serse, i Sami li avevano riscattati tutti, riforniti per il viaggio e rimandati ad Atene; e per questo soprattutto erano visti con sospetto: avevano liberato cinquecento uomini nemici di Serse. I Persiani ordinarono poi ai Milesi, in quanto, dicevano, migliori conoscitori della regione, di presidiare le strade che portano alle vette del Micale; ma lo fecero perché fossero lontani dal campo. In tal modo i Persiani si premunivano nei confronti degli Ioni dai quali subodoravano di doversi aspettare qualche atto ostile alla prima occasione. Dal canto loro ammassarono gli scudi per formare un baluardo. 100) Quando tutto fu pronto, i Greci avanzarono contro i barbari. Mentre muovevano una voce si sparse attraverso tutte le truppe, e apparve, sulla battigia, un bastone da araldo. Corse voce che i Greci impegnati in Beozia avevano sconfitto l'esercito di Mardonio. La presenza di elementi soprannaturali negli avvenimenti è dimostrata da molte prove, se anche allora, mentre la disfatta di Platea cadeva nello stesso giorno in cui stava per aver luogo quella di Micale, fra i Greci a Micale giunse una voce tale da sollevare molto più in alto il morale alle truppe e da far loro rischiare la vita con maggiore entusiasmo. 101) E ci fu anche un'altra coincidenza, che un santuario di Demetra Eleusinia sorgesse non lontano da entrambi i teatri delle battaglie. Infatti a Platea lo scontro avvenne proprio accanto al tempio di Demetra, come ho già detto, e a Micale stava per accadere altrettanto. La notizia sopraggiunta della vittoria ottenuta dai Greci di Pausania era esatta, perché la battaglia di Platea ebbe inizio al mattino, quella di Micale nel pomeriggio. Che fossero avvenute nello stesso giorno e stesso mese risultò chiaro poco tempo dopo dalle ricostruzioni. Prima che arrivasse la notizia i soldati erano tesi, non tanto per se stessi quanto per gli altri Greci: temevano che l'Ellade inciampasse malamente in Mardonio. Quando dunque la voce li raggiunse, attaccarono con più ardore e più svelti. I Greci e i barbari erano ansiosi di battersi: sapevano che le isole e l'Ellesponto erano il premio in palio. 102) Gli Ateniesi e le truppe ad essi affiancate fino a metà dello schieramento procedevano lungo la spiaggia e su terreno pianeggiante, gli Spartani e le milizie che stavano loro accanto lungo un canalone e su terreno accidentato. Mentre questi ultimi ancora completavano l'aggiramento, sull'altro lato già si combatteva, eccome. I Persiani, finché gli scudi ressero, si difesero senza avere assolutamente la peggio sul campo; ma quando il blocco degli Ateniesi e dei loro compagni, perché l'impresa risultasse loro e non degli Spartani, si incitarono a vicenda e si impegnarono con maggior vigore, allora le cose cominciarono a cambiare. Travolti gli scudi, si gettarono di slancio e tutti assieme contro i Persiani; questi sostennero l'urto e per un bel pezzo ribatterono colpo su colpo, infine ripiegarono verso il muro. Ateniesi, Corinzi, Sicioni e Trezeni (così, nell'ordine, erano schierati) li inseguirono compatti e piombarono sul fortilizio. Quando anche il muro fu preso, i barbari non si difesero più, ma volsero tutti le spalle, tranne i Persiani. Questi a piccoli gruppi si battevano contro i Greci che di volta in volta irrompevano entro la cinta. Dei generali persiani due fuggirono e due caddero: Artaunte e Itamitre, comandanti della flotta, fuggirono, Mardonte e il capo della fanteria Tigrane caddero con le armi in pugno. 103) E ancora combattevano i Persiani, quando sopraggiunsero gli Spartani con i loro compagni e aiutarono a compiere il resto. Sul posto caddero anche molti Greci, fra gli altri Sicioni, per esempio, anche lo stratego Perilao. Quanto ai Sami presenti sul campo, che militavano tra le file dei Medi ed erano stati disarmati, appena si accorsero che subito, fin dall'inizio, si profilava una vittoria del campo avverso, fecero quanto potevano per aiutare i Greci. Gli altri Ioni, al vedere i Sami dare l'esempio, si ribellarono anch'essi ai Persiani e si rovesciarono contro i barbari. 104) Ai Milesi i Persiani avevano ordinato di sorvegliare i passi, per loro salvezza, cioè per potersi mettere in salvo, disponendo di guide, sulle vette del Micale, nel caso fosse accaduto quanto poi appunto accadde. I Milesi erano stati dislocati così per tale ragione e perché, presenti fra le truppe, non vi causassero qualche scompiglio. Ma essi fecero l'esatto contrario di ciò che gli era stato ordinato: guidarono i fuggitivi persiani per sentieri sbagliati che portavano in braccio al nemico e in definitiva furono proprio loro i più spietati nel massacro. Fu così che per la seconda volta la Ionia si ribellò ai Persiani. 105) In questa battaglia si segnalarono fra i Greci, per valore, gli Ateniesi e, fra gli Ateniesi, Ermolico figlio di Euteno, cultore del pancrazio. A questo Ermolico, anni più tardi, durante una guerra fra Atene e Caristo, toccò di morire a Cirno, nel territorio di Caristo, e di essere sepolto al Capo Geresto. Dopo gli Ateniesi si distinsero Corinzi, Trezeni e Sicioni. 106) Sterminata la maggior parte dei barbari, tanto dei combattenti come anche dei fuggitivi, i Greci diedero alle fiamme le navi e l'intera fortificazione, dopo aver provveduto a trasferire il bottino sulla spiaggia; e trovarono alcuni depositi di preziosi. Incendiati muro e navi, ripresero il largo. Arrivati a Samo, i Greci discussero su una evacuazione della Ionia, quale parte della Grecia sotto il loro controllo dovessero fissare come sede di stanziamento prima di abbandonare ai barbari la Ionia. Appariva loro impossibile, infatti, proteggere per sempre gli Ioni, in perenne stato di allerta; e d'altra parte, se non li proteggevano loro, non speravano affatto che gli Ioni potessero staccarsi impunemente dai Persiani. Per questo i capi peloponnesiaci pensavano di far sgomberare gli empori dei popoli greci che si erano schierati coi Medi e di destinare i territori all'insediamento degli Ioni; ma gli Ateniesi rifiutarono l'idea che si avacuasse la Ionia e che i Peloponnesiaci decidessero su colonie ateniesi; e visto che gli Ateniesi si opponevano vivamente, i Peloponnesiaci lasciarono cadere la proposta. E così ammisero nell'alleanza Samo, Chio, Lesbo e le altre isole che avevano combattuto al fianco dei Greci dopo averle impegnate sotto giuramento a rimanere leali e a non tradire. Dopo averli fatti giurare, salparono per andare a distruggere i ponti; credevano infatti di trovarli ancora in piedi. Essi dunque navigavano verso l'Ellesponto. 107) Intanto i barbari fuggiti e riparati sulle vette del Micale, che non erano molti, si portavano a Sardi. Lungo la strada Masiste figlio di Dario, che era stato presente alla disfatta avvenuta, insultò pesantemente il generale Artaunte, dicendogli fra l'altro che per come aveva condotto le operazioni era peggiore di una donna, e che per i danni arrecati alla casa del re era degno di ogni punizione. Fra i Persiani sentirsi definire "peggiore di una donna" è l'insulto più grave. Artaunte, dopo averne ascoltate tante, in preda all'ira sguainò la spada contro Masiste, deciso a ucciderlo. Ma Xenagora figlio di Prassilao, di Alicarnasso, che stava proprio dietro Artaunte, si accorse del suo scatto: lo afferrò per la vita, lo sollevò e lo scaraventò a terra; e nel frattempo i dorifori di Masiste fecero scudo. Xenagora agendo così fece un favore a Masiste stesso e a Serse, al quale salvava il fratello. E per questo gesto Xenagora ebbe dal re il governo dell'intera Cilicia. Durante la marcia non accadde più nulla, e giunsero a Sardi. A Sardi si trovava il re, dal giorno in cui vi era arrivato in fuga da Atene, dopo la disfatta navale. 108) Allora, mentre se ne stava a Sardi, Serse si invaghì della moglie di Masiste, che si trovava lì anch'essa. Giacché, con le sue missive, non riusciva a concludere, e neppure cercava di forzarla, per riguardo al fratello Masiste (la stessa ragione tratteneva anche la donna, più che certa di non subire violenza), ecco che Serse, impossibilitato a imboccare altre strade, combina per il proprio figlio Dario il matrimonio con la figlia di quella donna e di Masiste, convinto, così facendo, di farla sua più facilmente. Concluso l'accordo nuziale e compiuti i preparativi d'uso, se ne partì per Susa. Ma, quando vi fu arrivato ed ebbe introdotto in casa sua la sposa di Dario, ormai gli si era sopita la passione per la moglie di Masiste: Serse, mutati i sentimenti, amava la moglie di Dario, la figlia di Masiste e riuscì a conquistarla. Questa donna si chiamava Artaunte. 109) Passò del tempo e la cosa si riseppe, come segue. La moglie di Serse, Amestri, tessuto un grande e meraviglioso mantello ricamato, lo donò a Serse. Lui, tutto contento, se lo mise addosso e si recò da Artaunte. Rimasto contento anche di lei, la invitò in cambio dei suoi favori a chiedergli ciò che volesse; qualunque cosa indicasse l'avrebbe ottenuta. Era destino che la donna finisse male con tutta la sua famiglia: di fronte a questa proposta essa domandò a Serse: "Mi darai davvero quel che ti chiedo?". E lui, che si aspettava qualunque altra richiesta, promise e giurò. E quando ebbe giurato, lei, tranquillamente, pretese il mantello. Serse mise in atto ogni espediente: non voleva cederlo, se non altro per timore che Amestri, già sospettosa della tresca, in quel modo lo cogliesse in fallo; le offrì città, oro a profusione, un esercito di cui nessun altro avrebbe avuto il comando; l'esercito è un dono tutto persiano. Ma non la persuase e dovette consegnarle il mantello. Artaunte, felice del dono, lo portava e se ne pavoneggiava. 110) Amestri venne a sapere che lo aveva lei. Una volta al corrente di ciò che accadeva, non se la prese con la donna, ma, immaginando che la colpevole, la responsabile di tutto fosse la madre di lei, macchinava una brutta fine per la moglie di Masiste. Attese che il proprio marito Serse imbandisse un pranzo reale (questo banchetto si prepara una volta all'anno, nell'anniversario della nascita del re, e si chiama, in persiano, tyctà, in greco téleion; è l'unica circostanza in cui il re si unge la testa e fa regali ai Persiani), attese, dicevo, questo giorno e chiese a Serse, come presente, la moglie di Masiste. Serse considerò grave, orribile già l'idea di consegnare la moglie di suo fratello e per giunta una donna che non c'entrava nulla in quell'affare; aveva capito in effetti per quale ragione Amestri la voleva sua. 111) Infine, visto che lei non recedeva, e poi vincolato dall'usanza che impedisce di lasciare insoddisfatta una richiesta formulata durante un banchetto reale, sia pure del tutto controvoglia, acconsentì. E nel consegnare la donna ecco cosa fece: invitò Amestri a regolarsi come voleva, lui dal canto suo convocò il fratello e gli disse: "Masiste, tu sei figlio di Dario e fratello mio, e oltretutto sei una persona di prim'ordine. Con la donna con cui ora vivi non viverci più; in cambio io ti do una mia figlia; sposati questa; la moglie che hai ora non mi va, lasciala perdere". Masiste, sbalordito da quelle parole, rispose: "Signore che razza di malefico discorso mi stai facendo? Mia moglie, da cui ho figli giovani e figlie, e una di loro tu l'hai fatta sposare a tuo figlio, una moglie che è fatta per me, tu mi inviti a lasciarla? E a sposare tua figlia? Mio re, mi sento molto onorato se mi consideri degno di tua figlia, ma non farò nulla di tutto questo. E non forzarmi chiedendomi una cosa del genere. Vedrai che per tua figlia si troverà un altro marito, per nulla inferiore a me, e quanto a me, lasciami vivere con mia moglie". Masiste dunque gli rispose così, e Serse, adirato, ribatté: "L'hai voluto tu, Masiste: ora non ti posso più dare mia figlia da sposare, né tu vivrai più oltre con tua moglie. Così imparerai ad accettare ciò che ti si offre". Masiste, udito questo, uscì fuori, ma prima disse: "Signore, non mi hai ancora finito!". 112) Nel frattempo, proprio mentre Serse era a colloquio col fratello, Amestri, chiamati i dorifori di Serse, stava torturando la moglie di Masiste: le fece tagliare i seni e gettarli ai cani, le fece mozzare naso, orecchie, labbra, lingua e la rimandò a casa sfigurata senza rimedio. 113) Masiste, ancora ignaro del fatto, ma fiutando nell'aria la tempesta, si precipitò a casa di corsa. Visto lo scempio inflitto alla moglie e consigliatosi immediatamente con i figli, si mise in viaggio verso Battra con i propri figli e probabilmente con altri, deciso a sollevare una rivolta nella provincia battriana e ad arrecare i maggiori danni al re. E sarebbe anche andata così, io credo, se avesse fatto in tempo ad arrivare fra i Battri e i Saci. Godeva molte simpatie tra loro ed era governatore della Battriana. Ma Serse, informato delle sue intenzioni, mandò sulle sue tracce delle truppe e lo fece uccidere lungo il percorso, lui, i suoi figli e tutta la carovana. E questo è tutto sull'innamoramento di Serse e sulla morte di Masiste. 114) I Greci partiti da Micale in direzione dell'Ellesponto dapprima fecero tappa a Lecto, perché sorpresi dai venti, poi giunsero ad Abido e trovarono spezzati i ponti che credevano di trovare ancora in piedi; ed era per questi soprattutto che si erano spinti fino all'Ellesponto. Leotichida e i suoi Peloponnesiaci decisero allora di tornare in Grecia, Santippo e gli Ateniesi, invece, di rimanere lì e di tentare l'attacco al Chersoneso. I primi dunque partirono, gli Ateniesi invece passarono da Abido al Chersoneso e posero l'assedio a Sesto. 115) A Sesto, considerata la fortezza più solida della regione, alla notizia dell'arrivo dei Greci all'Ellesponto, erano convenuti dalle altre città vicine; fra gli altri c'era, giunto dalla città di Cardia, il Persiano Eobazo, che lì aveva portato le funi dei ponti. Abitavano la città gli Eoli indigeni, ma vi erano anche Persiani e un folto gruppo di altri alleati. 116) Signore della provincia era un governatore di Serse, il Persiano Artaucte, uomo terribile, un criminale, che aveva ingannato persino il re quando marciava verso Atene, rapinando da Eleunte le ricchezze del tempio di Protesilao, figlio di Ificlo. Nel Chersoneso, a Eleunte, c'è una tomba di Protesilao, e intorno un'area sacra dove c'erano molto denaro, coppe d'oro e d'argento, bronzo, vesti e altre offerte votive, che Artaucte depredò strappandone il consenso al re. Ingannò Serse perché gli disse: "Signore, c'è qui la casa di un Greco che combatté contro la tua terra, trovò la sua punizione e morì. Fammi dono della sua casa, perché la gente impari a non muovere più guerra al tuo paese". Con queste parole doveva facilmente persuadere Serse a donargli la casa dell'uomo; Serse non sospettava nulla di quanto Artaucte aveva in mente. Affermava che Protesilao era in guerra contro il paese del re, in questo senso: i Persiani partono dal presupposto che tutta l'Asia sia proprietà loro e di chi volta per volta sia loro re. Ricevuto il dono, aveva trasferito le ricchezze da Eleunte a Sesto; e faceva seminare e usare come pascolo il terreno sacro e lui stesso, ogni volta che scendeva a Eleunte, si univa a donne nel penetrale del tempio. L'attacco degli Ateniesi lo aveva colto di sorpresa e impreparato; si può dire che gli furono addosso mentre non era in guardia. 117) L'assedio si prolungava e sopraggiunse l'autunno. Gli Ateniesi erano avviliti perché si trovavano lontano dal proprio paese e perché non riuscivano a conquistare la fortezza; e chiedevano agli strateghi di ricondurli indietro. Ma questi si rifiutavano di farlo, prima di averla conquistata o di essere richiamati dallo stato ateniese. Così si adeguavano alle circostanze. 118) All'interno della cinta erano ormai giunti all'estremo, al punto di bollire e di mangiarsi le cinghie dei letti. Quando non ebbero più nemmeno questo, allora i Persiani, Artaucte ed Eobazo scapparono di notte e si dileguarono, calandosi dal lato posteriore della cinta, dove più scarsa era la presenza dei nemici. Una volta giorno, i Chersonesiti dalle mura segnalarono l'accaduto agli Ateniesi e spalancarono le porte. La maggior parte degli Ateniesi si lanciò all'inseguimento, gli altri occuparono la città. 119) Eobazo, riparato in Tracia, lo catturarono i Traci Absinti e lo sacrificarono al dio indigeno Plistoro, secondo il loro costume; i suoi compagni li uccisero in altro modo. Artaucte e i suoi uomini, ultimi a darsi alla fuga, intercettati poco sopra Egospotami, resistettero a lungo, poi in parte caddero in parte furono fatti prigionieri. I Greci li incatenarono e li condussero a Sesto, e con loro Artaucte, legato, lui e suo figlio. 120) I Chersonesiti raccontano che a uno dei suoi custodi accadde un fatto prodigioso mentre stava cuocendo dei pesci disseccati: questi, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano come pesci appena pescati. Tutti i presenti erano allibiti, invece Artaucte, come vide il portento, chiamò l'uomo che cucinava i pesci e gli disse: "Straniero di Atene, non avere paura di questo prodigio; non si è verificato per te, ma Protesilao di Eleunte vuole farmi sapere che anche da morto e imbalsamato ha dagli dèi la forza di vendicarsi di chi lo ha oltraggiato. Ora io desidero pagare la mia pena e offrire al dio cento talenti in cambio delle ricchezze che ho asportato dal tempio; se sopravvivo, poi, per me e per mio figlio verserò duecento talenti agli Ateniesi". Ma pur con queste promesse non persuase lo stratego Santippo. I cittadini di Eleunte, in effetti, per vendicare Protesilao, gli chiedevano di mettere a morte Artaucte, e anche lo stratego inclinava alla stessa idea. Lo trascinarono proprio sulla costa dove Serse aveva aggiogato lo stretto, altri dicono sulla collina che sovrasta la città di Madito, lo inchiodarono e appesero a una tavola; e sotto i suoi occhi gli lapidarono il figlio. 121) Fatto ciò, ritornarono in Grecia portandosi via con tutto il resto anche le funi dei ponti, per offrirle in voto ai santuari. E per quell'anno non accadde più altro. 122) Antenato dell'Artaucte che fu crocifisso, era Artembare, l'autore del ragionamento che i Persiani fecero proprio e presentarono a Ciro, e che suonava così: "Poiché Zeus concede l'egemonia ai Persiani e il potere sugli uomini a te, Ciro, che hai abbattuto Astiage, ebbene, giacché abbiamo poca terra, e accidentata, andiamo via di qua e prendiamocene una migliore. Ce ne sono molte di vicine a noi, e molte anche di più lontane; occupiamone una e saremo maggiormente ammirati per più ragioni. È logico che i dominatori agiscano così. E quando avremo un'occasione migliore di ora che comandiamo su molti uomini e sull'Asia intera?". Ciro udito ciò, per nulla sorpreso dal discorso, li autorizzò ad agire così, ma anche li ammonì, invitandoli a prepararsi a non dominare più, ma a essere dominati; perché da paesi molli nascono di solito uomini molli. Non è dato vedere nella stessa terra crescere frutti strepitosi e uomini forti in guerra. Sicché i Persiani compresero e si ritirarono, cedendo al parere di Ciro, e preferirono essere padroni abitando una terra sterile, piuttosto che servire altri seminando una fertile pianura. |
|
.....