DALLA CADUTA DI MILETO  ALLA       BATTAGLIA DI MARATONA


Seconda parte


71) Dopo la destituzione di Demarato, gli succedette nel regno Leotichide, figlio di Menare; egli ebbe un figlio, Zeuxidamo, che alcuni degli Spartiati chiamavano Cinisco. Questo Zeuxidamo non regnò su Sparta, perché morì prima di Leotichide, lasciando un figlio, Archidamo. Leotichide, quando perse Zeuxidamo, si prese una seconda moglie, Euridame, sorella di Menio e figlia di Diattoride; da lei non ebbe figli maschi, bensì una femmina, Lampito, e la concesse in moglie ad Archidamo figlio di Zeuxidamo.

72) E neppure Leotichide invecchiò a Sparta: pagò in qualche modo le sue colpe verso Demarato, ed ecco come. Ebbe il comando di una spedizione spartana contro la Tessaglia e, avendo la possibilità di sottomettere l'intero paese, si lasciò corrompere da una ingente somma di denaro. Colto sul fatto, lì nell'accampamento, seduto su di una borsa gonfia di denaro, tratto in giudizio, fuggì da Sparta; e la sua casa fu demolita; riparò a Tegea e lì chiuse i suoi giorni.

73) Ma questi avvenimenti si verificarono in tempi successivi. Allora invece Cleomene, andatogli a segno il colpo ai danni di Demarato, subito prese con sé Leotichide e mosse contro gli Egineti: nei loro confronti nutriva un tremendo rancore per l'affronto patito. E così gli Egineti, vedendosi venire addosso entrambi i re, non ritennero più il caso di opporre resistenza; gli Spartani scelsero dieci uomini fra gli Egineti, i più ragguardevoli per censo e per natali e li portarono via, fra gli altri anche Crio figlio di Policrito e Casambo figlio di Aristocrate, personaggi della massima autorità. Li condussero in Attica e li affidarono in custodia ai peggiori nemici degli Egineti, agli Ateniesi.

74) In seguito Cleomene, quando le sue losche macchinazioni ai danni di Demarato divennero note a tutti, ebbe paura degli Spartiati e fuggì in Tessaglia. Passato di là in Arcadia, tentò di suscitare una insurrezione, coalizzando contro Sparta gli Arcadi, che indusse fra l'altro a giurare di seguirlo dove li avesse condotti; e ci teneva in particolare a far venire i capi degli Arcadi nella città di Nonacri, per farli giurare sull'acqua dello Stige. Dicono gli Arcadi che in questa città si trova l'acqua dello Stige, o più esattamente ecco cosa c'è: una esigua vena d'acqua sgorgando dalla roccia sgocciola in una depressione, depressione circondata tutto intorno da un muro di pietre. Nonacri, dove si trova la sorgente, è una citta dell'Arcadia vicina a Fenea.

75) Quando gli Spartiati appresero l'operato di Cleomene, per paura lo riammisero a Sparta con le stesse prerogative con le quali regnava anche prima. Ma subito, appena rientrato, lo colpì una grave forma di pazzia (già prima non era del tutto sano di mente): ogni volta che incontrava uno Spartiata lo colpiva sulla faccia con lo scettro. Dato il suo comportamento e la sua follia, i parenti lo legarono a un ceppo di legno. Egli, imprigionato così, come vide il suo custode lasciato solo dagli altri, gli chiese un pugnale; poiché quello dapprima non glielo voleva dare, gli specificò minacciosamente, cosa gli avrebbe fatto una volta libero, finché la sentinella, atterrita dalle minacce (era infatti un ilota), gli diede il pugnale. Cleomene lo prese e cominciò dalle gambe a straziarsi. Fendendosi le carni nel senso della lunghezza passò dalle gambe alle cosce, dalle cosce alle anche e ai fianchi, fino a raggiungere il ventre, e morì così, sbudellandosi completamente. Ciò, secondo la maggior parte dei Greci, perché aveva persuaso la Pizia a dire quanto aveva detto su Demarato; secondo i soli Ateniesi invece, perché assalendo Eleusi aveva raso al suolo il recinto sacro degli dèi; secondo gli Argivi, infine, perché, avendo invitato degli Argivi scampati a una battaglia a lasciare il santuario dell'eroe Argo, dove si erano rifugiati, li aveva massacrati, e con totale noncuranza aveva incendiato persino il bosco sacro.

76) Effettivamente consultando l'oracolo a Delfi aveva appreso dal responso che avrebbe conquistato Argo. Quando poi, alla testa degli Spartiati, giunse sul fiume Erasino, che proviene, si dice, dal lago di Stinfelo, (l'acqua di questo lago precipitando in una voragine nascosta riaffiorerebbe in Argo e di là poi verrebbe ormai chiamata Erasino, dagli Argivi), Cleomene, dunque, giunto sulle rive di questo fiume, in suo onore offrì sacrifici. Poiché i presagi non risultarono minimamente propizi per varcare il fiume, egli, dichiarò che ammirava l'Erasino, non disposto a tradire i suoi concittadini, ma che gli Argivi neppure così avrebbero avuto di che rallegrarsi. Poi fece ripiegare l'esercito e lo condusse a Tirea; qui, dopo aver sacrificato un toro in onore del mare, con delle navi portò gli Spartani nel territorio di Tirinto e di Nauplia.

77) Gli Argivi, saputolo, corsero verso il mare a difendersi; giunti presso a Tirinto, nella località denominata Sepia, si accamparono di fronte agli Spartani, lasciando fra i due eserciti uno spazio non grande. A quel punto gli Argivi non temevano una battaglia in campo aperto, bensì di essere sorpresi da qualche inganno; infatti riguardava proprio quel caso specifico il responso che la Pizia aveva pronunciato in comune a loro e ai Milesi e che diceva così:...”Quando la femmina il maschio abbia vinto e il respinga, ed in Argo, Gloria si acquisti, si lacereranno la pelle assai donne  D’Argo, e tra i posteri molti diranno: E’ perito, Domo dall’asta, il serpente terribil, che non facea spire”... (Ma quando la femmina, sconfitto il maschio, lo scaccerà e si guadagnerà gloria fra gli Argivi, allora obbligherà molte Argive a lacerarsi le guance. Tanto che un giorno si dirà fra gli uomini a venire: un terribile serpente dalla triplice spira cadde abbattuto dalla lancia). Tutti questi fatti concorrevano a terrorizzare gli Argivi. Decisero perciò di servirsi dell'araldo nemico, esattamente come segue: ogni volta che l'araldo spartiata segnalava il da farsi agli Spartani, anche gli Argivi si regolavano in modo identico.

78) Cleomene, accortosi che gli Argivi si attenevano alle indicazioni del suo araldo, ordinò ai suoi, appena l'araldo avesse dato il segnale per il rancio, di impugnare le armi e gettarsi addosso agli Argivi. E così fecero puntualmente gli Spartani. Gli Argivi, sentendo il segnale del rancio, si erano messi a mangiare; gli Spartani piombarono su di loro e ne uccisero molti; e accerchiarono il bosco sacro ad Argo, in cui moltissimi si erano rifugiati.

79) A quel punto ecco come agì Cleomene: avendo a disposizione dei transfughi ricavò da loro le necessarie informazioni, poi, tramite un araldo, chiamò fuori gli Argivi asserragliati nel santuario invitandoli per nome; li convinse a uscire affermando di possedere già il loro riscatto (il riscatto a Sparta è fissato in due mine da pagarsi per ogni prigioniero). In tal modo Cleomene trucidò una cinquantina di Argivi, stanandoli uno per uno. Gli altri rimasti all'interno del sacro recinto non si erano minimamente accorti di quanto accadeva; il bosco era molto fitto, e da dentro non potevano scorgere cosa facessero gli altri, di fuori, finché uno di loro non salì su un albero e vide quanto stava succedendo. A quel punto, pur continuando a venir chiamati, non uscirono più.

80) Allora Cleomene ordinò a ogni ilota di accatastare della legna intorno alla selva, e quando essi ebbero obbedito, appiccò il fuoco al bosco. Mentre ormai bruciava, chiese a uno dei transfughi a quale dio quel luogo fosse consacrato; e quello rispose che apparteneva ad Argo. Appena udita la risposta Cleomene molto si dolse ed esclamò: "Apollo, dio dell'oracolo, come mi hai ingannato bene affermando che avrei preso Argo; mi rendo conto che il vaticinio mi si è già compiuto".

81) Poi Cleomene rimandò indietro a Sparta il grosso dell'esercito, ma prese con sé i mille soldati migliori e si recò al tempio di Era a offrire un sacrificio. Voleva sacrificare sull'altare ma il sacerdote glielo proibì, sostenendo che uno straniero non poteva, pena l'empietà, eseguire il rito in quel luogo; Cleomene ordinò agli iloti di allontanare il sacerdote dall'altare e di frustarlo, poi personalmente compì il sacrificio; ciò fatto, ripartì per Sparta.

82) Al suo ritorno, i suoi nemici lo accusarono davanti agli efori, sostenendo che non aveva conquistato Argo, benché facile da espugnarsi, perché si era lasciato corrompere. Egli ribatté, non so dire con certezza se mentendo o dicendo la verità, ma ribatté insomma dichiarando che dopo la conquista del santuario di Argo il vaticinio del dio gli era parso già compiuto; pertanto aveva pensato bene di non assalire la città prima di aver offerto dei sacrifici per accertare se il dio glielo permetteva o glielo impediva; e mentre traeva gli auspici nel tempio di Era, dalla statua della dea, dal petto, era lampeggiata una vampa di fuoco, e in tal modo aveva appreso con sicurezza di non poter conquistare Argo. Se infatti la luce fosse esplosa dalla testa della statua, avrebbe espugnata la città da cima a fondo, ma poiché la vampa era scaturita dal petto, aveva già compiuto tutto quanto il dio desiderava accadesse. Agli Spartiati la spiegazione di Cleomene, in questi termini espressa, parve credibile e ragionevole, sicché fu assolto a grande maggioranza.

83) Argo fu depauperata di uomini al punto che gli schiavi ebbero in mano loro ogni funzione, governando e amministrando, finché non divennero adulti i figli dei defunti. Costoro, poi, una volta ripreso il controllo di Argo, allontanarono gli schiavi, i quali, scacciati, si impadronirono di Tirinto con le armi. Per un po' ci furono fra loro rapporti di amicizia, ma poi, presso gli schiavi arrivò un indovino, Cleandro, originario di Figalia in Arcadia; costui convinse gli schiavi ad assalire i padroni. Da qui una guerra, durata parecchio tempo, finché a stento gli Argivi non ebbero la meglio.

84) Per tale ragione dunque, secondo gli Argivi, Cleomene divenne pazzo e morì malamente; gli Spartiati invece negano che la pazzia di Cleomene fosse di origine soprannaturale: secondo loro, Cleomene, avendo frequentato degli Sciti, diventò un forte bevitore: e da lì la follia. In effetti gli Sciti nomadi, dopo l'invasione del loro paese da parte di Dario, smaniosi di vendicarsi, avevano inviato ambasciatori a Sparta per stipulare un patto di alleanza, e si erano accordati così: gli Sciti dovevano attaccare dalla parte del fiume Fasi e invadere la Media, e invitavano gli Spartiati a muovere in marcia da Efeso, per convergere poi tutti nello stesso luogo. Si narra dunque che Cleomene, quando gli Sciti furono a Sparta per discutere questo piano, li frequentasse un po' troppo e frequentandoli imparasse da loro a bere vino puro; di qui, pensano gli Spartani, derivò la sua pazzia. Da allora, sono loro stessi a spiegarlo, quando vogliono berne di un po' più forte, dicono: "Versami alla scitica!". Questo è dunque quanto raccontano gli Spartiati su Cleomene; ma a me sembra che Cleomene abbia pagato così le sue colpe verso Demarato.

85) Gli Egineti, come seppero della morte di Cleomene, inviarono messaggeri a Sparta per protestare contro Leotichide circa gli ostaggi trattenuti ad Atene. Gli Spartiati nominarono una commissione, riconobbero che gli Egineti erano stati angariati da Leotichide e sentenziarono che lui doveva essere consegnato e condotto a Egina in cambio dei cittadini prigionieri ad Atene. Ma quando già gli Egineti si apprestavano a portare via Leotichide, Teaside figlio di Leoprepe, uomo ragguardevole a Sparta, disse: "Che decidete di fare, Egineti? Di portarvi via il re degli Spartiati, che i suoi concittadini vi hanno consegnato? Se adesso gli Spartiati in un momento di sdegno hanno deciso così, badate, se lo farete, che un giorno non scatenino contro il vostro paese un uragano di guai". Udito ciò, gli Egineti rinunziarono a portar via Leotichide e si misero d'accordo così: che il re, accompagnandoli ad Atene, ottenesse la restituzione agli Egineti dei loro uomini.

86) Quando Leotichide, arrivato ad Atene, reclamò gli ostaggi, gli Ateniesi, che non volevano restituirli, accamparono pretesti; dissero che due re li avevano affidati a loro e che non ritenevano corretto riconsegnarli a uno dei due in assenza dell'altro.

A) Dato che gli Ateniesi rifiutavano di renderli, Leotichide disse loro: "Ateniesi, agite pure come volete voi. Restituendoli farete cosa giusta e sacra, non rilasciandoli farete esattamente il contrario. Comunque io voglio narrarvi cos'accadde una volta a Sparta riguardo a un deposito. Noi Spartiati raccontiamo che due generazioni fa a Sparta viveva Glauco, figlio di Epicide. Questo uomo, si narra, primeggiava in tutto e in particolare per il suo senso di giustizia godeva della stima massima fra tutti quanti allora abitavano a Sparta. Ecco cosa gli accadde a suo tempo, come si narra da noi.

B) Giunse a Sparta un uomo di Mileto e volle incontrarsi con lui per fargli la seguente proposta: "Io sono di Mileto", disse, "e sono venuto qui nel desiderio di avvalermi della tua onestà, Glauco. Infatti mentre per tutto il resto della Grecia e anche in Ionia si faceva un gran parlare della tua giustizia, io riflettevo tra me che la Ionia è quasi sempre in pericolo, mentre il Peloponneso è in una posizione di assoluta sicurezza, e che d'altronde non è mai dato vedere le ricchezze in mano alle stesse persone. Dopo aver riflettuto, dunque, valutata la situazione, decisi di convertire in denaro la metà delle mie sostanze e di depositarla presso di te: sono convinto che quanto resterà presso di te rimarrà intatto. Tu perciò prendi il denaro e questi contrassegni e conservali: restituirai il denaro a chi te lo chiederà e sia in possesso di identici contrassegni". Così parlò lo straniero arrivato da Mileto; Glauco accettò il deposito alla condizione suddetta. Trascorso parecchio tempo, giunsero a Sparta i figli dell'uomo che aveva depositato il tesoro, si presentarono da Glauco e, mostrandogli i contrassegni, volevano indietro il denaro. Ma Glauco respinse la richiesta con una risposta di questo tenore: "Io non rammento questa faccenda e non me la richiama nulla di ciò che andate dicendo; ma se me la ricorderò, desidero agire secondo piena giustizia e quindi, se ho ricevuto, voglio onestamente restituire; però, se non ho ricevuto un bel niente, io mi atterrò con voi alle norme dei Greci. Pertanto rinvio la soluzione del vostro problema fra tre mesi".

C) I Milesi se ne andarono in preda allo sconforto, ritenendosi ormai defraudati del loro denaro. Glauco da parte sua si recò a Delfi per consultare l'oracolo. Ma quando domandò all'oracolo se grazie a un giuramento avrebbe messo le mani sul denaro, la Pizia lo aggredì con queste parole:...”Glauco figlio di Epicide! adesso ti reca guadagno Vincere col giuramento e i tesori predare. E tu, giura!  Poi che la morte attende anche l’uomo fedele al sua giuro. Ma, resta un figlio del giuro tradito!  sfornito di nome, Privo di mani, di piedi anche privo: pur rapido insegue, Fino a che tutta distrugga la stirpe e la casa che afferra. Dell’uomo onesto, invece, la stirpe futura migliora”... (Glauco di Epicide, nell'immediato è più vantaggioso così; spuntarla con un giuramento e appropriarsi del denaro. Giura, tanto la morte attende anche chi rispetta i giuramenti! Ma il Giuramento ha un figlio, senza nome, senza mani e senza piedi; che si avventa però agilmente, finché, ghermita tutta una stirpe e tutta una casata, non l'abbia distrutta. La discendenza di chi rispetta i giuramenti, nei tempi a venire vive meglio). "Udita questa risposta, Glauco pregò il dio di perdonargli le sue parole. Ma la Pizia disse che tentare il dio e agire male hanno lo stesso valore.

D) Glauco, insomma, mandò a chiamare gli stranieri di Mileto e restituì loro le ricchezze. E ora sapete, Ateniesi, perché ho preso le mosse da questo discorso: oggi non esiste alcun discendente di Glauco e non esiste focolare che sia detto di Glauco: la sua progenie è stata estirpata da Sparta, dalle radici. Ecco perché, circa un deposito, è bene non pensare ad altro che a restituirlo a chi lo reclami".

87) Detto questo, Leotichide, visto che neppure così gli Ateniesi gli davano ascolto, se ne andò. Invece gli Egineti, prima ancora di pagare i torti già commessi nei confronti degli Ateniesi per rendere un servizio ai Tebani, ecco cosa fecero. Sdegnati contro gli Ateniesi e ritenendosi offesi, preparavano una vendetta; e poiché gli Ateniesi celebravano allora una festa quinquennale al Sunio, tesero un agguato alla nave sacra e la catturarono carica dei più ragguardevoli cittadini di Atene. Li fecero prigionieri e li gettarono in carcere.

88) Gli Ateniesi, subíto l'affronto degli Egineti, non ci pensarono un secondo a macchinare di tutto ai danni degli Egineti. Viveva a Egina un uomo di notevole prestigio, di nome Nicodromo, figlio di Cneto: costui ce l'aveva con gli Egineti perché lo avevano esiliato dall'isola in tempi precedenti, sicché quando seppe che gli Ateniesi erano pronti a nuocere agli Egineti, si accordò con loro per tradire l'isola, indicando il giorno in cui avrebbe tentato il colpo di mano e in cui loro dovevano accorrere in suo aiuto.

89) Più tardi Nicodromo si impadronì della cosiddetta Città Vecchia, ma gli Ateniesi non si presentarono al momento giusto. Infatti si erano trovati privi di navi in grado di affrontare quelle degli Egineti; e nel tempo speso a pregare i Corinzi di fornirgliene, l'occasione sfumò. I Corinzi in quel periodo erano effettivamente in ottimi rapporti con gli Ateniesi: alle loro richieste risposero fornendo venti navi, ricevendone in compenso cinque dracme per ciascuna, perché per legge non era permesso farne dono. Con queste venti navi e con le proprie, settanta fra tutte, gli Ateniesi partirono per Egina, dove arrivarono con ventiquattro ore di ritardo sul giorno fissato.

90) Siccome gli Ateniesi non erano giunti al momento giusto, Nicodromo si imbarcò e fuggì da Egina. Lo seguirono anche quegli altri cittadini ai quali poi gli Ateniesi diedero da abitare il Sunio. Muovendo da questa base depredavano e rapinavano gli Egineti dell'isola. Ma questo accadde più tardi.

91) Gli Egineti benestanti riuscirono a soffocare la rivolta dei popolani ribellatisi assieme a Nicodromo; quando li ebbero fra le mani, poi, li portarono fuori della città per giustiziarli. Ma questo episodio si risolse per loro in un sacrilegio, dal quale, per quanto ci provassero, non furono capaci di liberarsi: vennero anzi scacciati dall'isola prima che la dea ritornasse propizia. In effetti arrestarono e condussero fuori città per trucidarli 700 uomini del popolo: uno di questi, però, liberatosi dalle catene, si rifugiò nell'atrio del tempio della dea Demetra Tesmofora, e afferrando le maniglie delle porte vi rimase aggrappato. Non essendo riusciti a staccarlo da lì tirandolo via, gli mozzarono le mani, e lo portarono via così, e le mani rimasero attaccate alle maniglie.

92) Questo dunque fecero contro se stessi gli Egineti: contro gli Ateniesi in arrivo si batterono con settanta navi, ma, sconfitti nello scontro navale, invocarono in aiuto gli stessi di prima, gli Argivi. Gli Argivi, però, non accolsero la richiesta, rinfacciando loro che navi da Egina, sia pure prese con la forza da Cleomene, erano approdate in territorio argivo dove gli equipaggi erano sbarcati assieme agli Spartani; durante la stessa invasione avevano preso parte allo sbarco anche uomini scesi da navi di Sicione. Alle due città gli Argivi avevano imposto di pagare un risarcimento di 1000 talenti, 500 per ciascuna. Ebbene, i Sicioni, riconosciuta la propria colpa, si erano accordati per versare 100 talenti ed essere esentati dal resto, gli Egineti invece non ammettevano niente ed erano ancor più arroganti. Per questa ragione, ricevuto l'appello, nemmeno un Argivo partì in soccorso per decisione dello stato: solo un migliaio di volontari, comandati da Euribate, un ex-pentatleta. La maggior parte di loro non fece ritorno: morirono a Egina per mano degli Ateniesi; lo stratego Euribate, dal canto suo, ingaggiando duelli individuali abbatté in tal modo tre nemici, ma fu ucciso dal quarto, Sofane di Decelea.

93) Invece gli Egineti assalirono sul mare gli Ateniesi mentre non erano ancora schierati a battaglia e riportarono la vittoria, catturando quattro navi complete di equipaggio.

94) Gli Ateniesi dunque erano impegnati in guerra contro gli Egineti. Intanto il re persiano metteva in atto il suo progetto: il servo continuava a ricordargli di tenere a mente Atene, e i Pisistratidi gli stavano da presso accusando gli Ateniesi; al tempo stesso con questo pretesto Dario desiderava sottomettere quanti in Grecia gli avevano negato terra e acqua. Esautorò dal comando supremo Mardonio, che aveva operato malamente con la flotta e, nominati altri comandanti, li inviò contro Eretria e Atene: si trattava di Dati, di stirpe meda, e di Artafrene, figlio di Artafrene, nipote suo. Li mandò con l'incarico di ridurre in schiavitù Atene ed Eretria e di condurre tali schiavi al suo cospetto.

95) I due generali designati, lasciato il re, giunsero in Cilicia, nella piana di Aleia, conducendo con sé un esercito di terra numeroso e ben equipaggiato; e mentre erano colà accampati sopraggiunsero tutte le squadre navali ordinate ai singoli popoli, e si presentarono anche le imbarcazioni per il trasporto dei cavalli, che l'anno precedente Dario aveva imposto di allestire ai suoi tributari. Una volta fatti salire i cavalli su queste navi e imbarcata la fanteria, partirono con 600 triremi verso la Ionia. Dalla Cilicia non puntarono sull'Ellesponto e la Tracia, costeggiando il continente, ma da Samo presero il largo passando accanto a Icaro e attraverso l'arcipelago; secondo me temevano fortemente la circumnavigazione dell'Athos, visto che l'anno prima, lungo quell'itinerario, avevano subito gravi danni; inoltre li costringeva a seguire quella rotta anche Nasso, che a suo tempo non era stata conquistata.

96) Dopo essere usciti dal mare Icario si diressero e approdarono a Nasso (infatti a quest'isola per prima i Persiani intendevano portare guerra); i Nassi, memori della volta precedente, si dileguarono in fuga verso le montagne e non attesero l'assalto; i Persiani ridussero in schiavitù i Nassi che riuscirono a catturare e diedero alle fiamme santuari e città. Fatto ciò salparono in direzione delle altre isole.

97) Mentre essi agivano a Nasso, i Deli abbandonarono a loro volta la propria isola e si andarono a rifugiare a Teno. Quando già l'armata stava per accostare, Dati, che precedeva la flotta, non permise che le navi ormeggiassero a Delo e fece gettare l'ancora lì di fronte, nelle acque di Renea; lui stesso poi, saputo dove stavano i Deli, inviò loro un araldo col seguente messaggio: "Voi, uomini sacri, siete fuggiti perché avete di me un'opinione cattiva e sbagliata. Io già la penso in questo modo, e poi così dal re mi è ordinato, di non recare alcun danno al paese in cui nacquero le due divinità, al paese, dico, e ai suoi abitanti. Perciò tornatevene alle vostre attività e abitate pure l'isola". Questo fu il messaggio indirizzato ai Deli; poi Dati ammassò trecento talenti di incenso sull'altare e li bruciò in onore del dio.

98) Dati, in seguito, si diresse con la sua armata contro Eretria, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Dopo la sua partenza, come raccontano i Deli, l'isola subì una scossa sismica, il primo e ultimo terremoto fino ai tempi miei; il dio, immagino, mostrò questo prodigio per segnalare le sventure che si sarebbero abbattute sull'umanità. In effetti sotto i regni di Dario di Istaspe, di Serse di Dario e di suo figlio Artaserse, tre generazioni successive, toccarono più calamità alla Grecia che nelle venti altre generazioni precedenti i tempi di Dario, causate in parte dai Persiani, in parte dai capi stessi dei Greci in lotta per il potere. Nulla di strano, quindi, che avesse tremato Delo, fino ad allora rimasta immune da terremoti. Su di lei in un oracolo stava scritto così:,,,”Io scuoterò pure Delo, che fu prima stabile terra”... (Scuoterò anche Delo, che era immobile). I nomi dei sovrani in lingua greca significano "il potente" (Dario), "il bellicoso" (Serse), "il molto bellicoso" (Artaserse). Nella loro lingua i Greci potrebbero chiamarli così questi re, senza tema di sbagliare.

99) I barbari, allontanatisi da Delo, facevano scalo nelle isole, da dove prelevavano truppe e prendevano in ostaggio i figli degli isolani. Quando nel loro giro delle isole giunsero anche a Caristo, (poiché i Caristi non consegnarono ostaggi e si rifiutarono di muovere in armi contro città a essi vicine, e nominavano Atene ed Eretria), allora li strinsero d'assedio e ne devastarono le terre, finché anche i Caristi non si schierarono dalla parte dei Persiani.

100) Gli Eretriesi, informati che la flotta persiana si dirigeva contro di loro, chiesero soccorso agli Ateniesi. Gli Ateniesi non negarono assistenza, anzi gli assegnarono a difesa i 4000 cleruchi che possedevano la terra degli ippoboti di Calcide. Ma non presero nessuna sana decisione: perché gli Eretriesi avevano chiamato sì gli Ateniesi, ma erano incerti fra due diversi pareri. Alcuni di loro infatti suggerivano di abbandonare la città e rifugiarsi sulle alture dell'Eubea, altri, attendendosi un personale tornaconto dai Persiani, si predisponevano a tradire. Quando seppe come si profilava la situazione, Eschine, figlio di Notone, uomo fra i più ragguardevoli di Eretria, l'espose esattamente com'era agli Ateniesi sopraggiunti e li pregò di tornarsene a casa, onde evitare una brutta fine. E gli Ateniesi seguirono i consigli di Eschine.

101) E così gli Ateniesi, passati a Oropo, si mettevano in salvo. I Persiani in navigazione ormeggiarono le navi nel paese di Eretria, all'altezza di Tamine, Cherea ed Egilia, e, una volta gettate qui le ancore, subito sbarcarono i cavalli e si prepararono ad assalire i nemici. Non rientrava nei piani degli Eretriesi di piombare loro addosso e dare battaglia; come difendere le mura, se possibile, questo gli interessava, poiché era prevalsa l'opinione di non lasciare la città. Fu lanciato un duro assalto alle mura, e per sei giorni si ebbero molte perdite da entrambe le parti. Il settimo giorno Euforbo figlio di Alcimaco e Filagro figlio di Cinea, uomini prestigiosi in città, tradirono a vantaggio dei Persiani, i quali, penetrati in città, saccheggiarono e incendiarono i santuari, come rappresaglia per i templi dati alle fiamme a Sardi; e come Dario aveva ordinato ridussero in schiavitù la popolazione.

102) Dopo la presa di Eretria e pochi giorni di sosta colà, salparono verso la terra d'Attica, stringendo gli Ateniesi in una morsa, convinti di destinarli alla stessa fine degli Eretriesi. E poiché Maratona era, in Attica, la località più adatta a operazioni di cavalleria, e vicinissima a Eretria, qui li guidò Ippia, figlio di Pisistrato.

103) Gli Ateniesi, come lo seppero, accorsero anche loro a Maratona per difendersi, al comando di dieci strateghi; tra i dieci c'era Milziade, il cui padre Cimone, figlio di Stesagora, era stato costretto ad abbandonare Atene da Pisistrato figlio di Ippocrate. Mentre era in esilio, poi, gli capitò di vincere alle Olimpiadi nella corsa delle quadrighe: riportando questa vittoria ripeteva l'impresa di suo fratello Milziade, figlio della stessa madre. Quindi, trionfando all'Olimpiade successiva con le stesse cavalle, cedette a Pisistrato l'onore di essere proclamato vincitore e avendogli lasciato la corona poté, grazie a espliciti accordi, rientrare in patria. Gli toccò poi di morire, dopo aver vinto un'altra Olimpiade con le stesse cavalle, e quando ormai Pisistrato non era più in vita, per mano dei figli di Pisistrato. Essi lo fecero uccidere in una imboscata notturna nei pressi del Pritaneo. Cimone giace sepolto fuori città, al di là della strada che attraversa la cosiddetta "Cava". Di fronte a lui stanno sepolte le cavalle che vinsero a tre Olimpiadi. Già altre cavalle, quelle di Evagora figlio di Lacone, avevano compiuto la stessa impresa, ma sono i due soli casi. Il maggiore dei figli di Cimone, Stesagora, era in quel periodo in casa dello zio Milziade, nel Chersoneso; il più giovane si trovava ad Atene presso Cimone stesso e si chiamava Milziade, proprio come il colonizzatore del Chersoneso.

104) Allora, insomma, questo Milziade, comandava l'esercito ateniese; era arrivato dal Chersoneso ed era scampato due volte alla morte. Infatti non solo i Fenici che gli avevano dato la caccia fino a Imbro ci tenevano assai a catturarlo e a consegnarlo al re, ma per giunta, proprio quando, sfuggito ai Fenici e arrivato in patria, era ormai convinto di essere in salvo, i suoi nemici, che lo avevano atteso al varco, lo perseguirono penalmente accusandolo di essersi reso tiranno del Chersoneso. Sfuggito anche a questi accusatori fu proclamato stratego di Atene, per scelta popolare.

105) E per prima cosa gli strateghi, mentre erano ancora in città, inviarono a Sparta come araldo il cittadino ateniese Filippide, che era, di professione, un messaggero per le lunghe distanze. Filippide, come lui stesso raccontò e riferì ufficialmente agli Ateniesi, nei pressi del monte Partenio, sopra Tegea, s'imbatté in Pan. Pan, dopo aver gridato a voce altissima il nome di Filippide, gli ingiunse di chiedere agli Ateniesi perché mai non si curavano affatto di lui, benché fosse loro amico e li avesse aiutati molte volte in passato e fosse pronto a farlo per il futuro. E gli Ateniesi, una volta ristabilitasi la situazione, avendo creduto veritiero tale racconto, edificarono ai piedi dell'acropoli un tempio di Pan, che venerano ogni anno, dopo quel messaggio, con sacrifici propiziatori e una corsa di fiaccole.

106) Filippide, inviato dagli strateghi, proprio quella volta lì, in cui disse che gli era apparso Pan, era già a Sparta il giorno dopo la sua partenza dalla città di Atene. Presentatosi ai magistrati spartani, disse: "Spartani, gli Ateniesi vi pregano di venire in loro soccorso e di non permettere che una città fra le più antiche della Grecia cada in schiavitù per opera di genti barbare; è così: ora gli Eretriesi sono schiavi e la Grecia risulta più debole, perché le manca una città importante". Egli dunque comunicava il messaggio che gli era stato affidato; gli Spartani decisero sì di inviare aiuti, ma non erano in grado di provvedere subito, perché non volevano violare la legge: era infatti il nono giorno della prima decade del mese, e il nono giorno non potevano partire, specificarono, perché non c'era ancora il plenilunio.

107) Essi pertanto attendevano il plenilunio. Intanto Ippia figlio di Pisistrato guidava i barbari a Maratona; la notte precedente dormendo aveva avuto un sogno: gli era parso di giacere con la propria madre. Arguì dunque dal sogno che, rientrato ad Atene e recuperato il proprio potere, sarebbe morto di vecchiaia nella sua patria. Questo dedusse dalla visione. Allora dirigendo le operazioni sbarcò gli schiavi di Eretria nell'isola degli Stirei, denominata Egilia, poi fece ormeggiare le navi che arrivavano a Maratona e schierò i barbari scesi a terra. Mentre dava queste disposizioni gli capitò di starnutire e tossire più forte del solito; e poiché era alquanto anziano quasi tutti i denti gli vacillavano. Un colpo di tosse più violento gliene strappò via uno; gli cadde sulla sabbia e lui si diede un gran da fare per trovarlo. Ma poiché il dente non si vedeva, sospirò e disse ai presenti: "Questa terra non è nostra e noi non potremo impadronircene. Quel tanto che mi spettava se l'è preso il dente".

108) Ippia interpretò che la sua visione così aveva avuto compimento. Agli Ateniesi schierati nell'area del santuario di Eracle giunsero in soccorso i Plateesi tutti; in effetti i Plateesi si erano messi sotto la protezione di Atene, e gli Ateniesi si erano già sobbarcati varie gravose imprese per loro. Ecco come si erano svolte le cose. Oppressi dai Tebani, i Plateesi si erano rivolti in un primo momento a Cleomene figlio di Anassandride e agli Spartani, che si trovavano per caso da quelle parti; ma essi non accettarono, con questa spiegazione: "Noi abitiamo lontano, e quindi il nostro soccorso si rivelerebbe inefficace; più d'una volta rischiereste di essere ridotti in schiavitù, prima che qualcuno di noi venga a saperlo. Vi consigliamo di affidarvi agli Ateniesi: stanno qui vicino e non sono alleati di poco conto". Gli Spartani diedero questo suggerimento non tanto per simpatia verso i Plateesi quanto desiderando dare noie agli Ateniesi impegnati contro i Beoti. Tale dunque il consiglio degli Spartani ai Plateesi, ed essi non lo trascurarono, anzi mentre gli Ateniesi offrivano sacrifici ai dodici dèi, si piazzarono come supplici presso l'altare e si posero sotto la loro protezione. I Tebani, quando lo seppero, marciarono contro Platea, e gli Ateniesi accorsero a difendere i Plateesi. Stavano già per ingaggiare battaglia, ma i Corinzi non lo consentirono; si trovavano nei paraggi e riconciliarono i due contendenti, che si erano rimessi a loro, delimitando i rispettivi territori, alla condizione che i Tebani lasciassero liberi i Beoti non più disposti a far parte della lega beotica. I Corinzi, deciso così, se ne andarono; i Beoti assalirono gli Ateniesi mentre si allontanavano, ma nella battaglia seguita all'assalto ebbero la peggio. Gli Ateniesi violarono i limiti territoriali fissati per i Plateesi dai Corinzi, li superarono e stabilirono come confine per i Tebani, dalla parte di Platea e di Isie, lo stesso fiume Asopo. Così dunque, come ho raccontato, i Plateesi si erano posti sotto la protezione degli Ateniesi, allora poi erano giunti a Maratona per battersi al loro fianco.

109) Le opinioni degli strateghi ateniesi erano discordi: mentre alcuni non volevano ingaggiare battaglia (sostenendo che erano pochi per misurarsi con l'esercito medo) altri invece, tra i quali Milziade, spingevano in tal senso. Erano dunque così divisi e stava prevalendo l'opinione peggiore; ma esisteva una undicesima persona con diritto di voto, e cioè il cittadino estratto a sorte per la carica di polemarco in Atene (anticamente, infatti, gli Ateniesi attribuivano al polemarco lo stesso diritto di voto degli strateghi). In quel momento era polemarco Callimaco di Afidna; Milziade si recò da lui e gli disse: "Callimaco, ora dipende da te rendere schiava Atene, oppure assicurarle la libertà e lasciare di te, finché esisterà il genere umano, un ricordo quale non lasciarono neppure Armodio e Aristogitone. Oggi gli Ateniesi si trovano di fronte al pericolo più grande mai incontrato dai tempi della loro origine: se chineranno la testa davanti ai Medi, è già deciso cosa patiranno una volta nelle mani di Ippia; ma se vince, questa città è tale da diventare la prima della Grecia. E ora ti spiego come ciò sia possibile e come l'intera faccenda sia venuta a dipendere da te. Noi strateghi siamo dieci e siamo divisi fra due diversi pareri: alcuni di noi sono propensi a combattere, altri no. Ebbene, se non scendiamo in campo io mi aspetto che una ventata di discordia investa gli Ateniesi e ne sconvolga le menti, inducendoli a passare con i Medi. Se invece attacchiamo prima che questa peste si propaghi ai cittadini, se gli dèi si mantengono imparziali, noi siamo in grado di uscire vincitori dalla lotta. Tutto questo riguarda te e da te dipende; infatti se tu ti schieri sulle mie posizioni, per te la patria sarà salva e Atene la prima città della Grecia. Se invece ti schieri con chi è per il no, accadrà esattamente il contrario di quanto ti ho detto in positivo".

110) Con tali parole Milziade si garantì l'appoggio di Callimaco, e grazie al voto aggiuntivo del polemarco si decise di dare battaglia. Dopodiché gli strateghi favorevoli allo scontro, quando a ciascuno di loro toccava il turno di comando, lo cedevano a Milziade; Milziade accettava, ma non attaccò battaglia finché non giunse il suo turno effettivo.

111) Quando toccò a lui, allora gli Ateniesi si schierarono in ordine di combattimento. Alla testa dell'ala destra c'era il polemarco (Callimaco). Infatti all'epoca la consuetudine ateniese voleva così, che il polemarco guidasse l'ala destra. Da lì si allineavano le tribù, una accanto all'altra, secondo il loro numero; l'ultimo posto, cioè l'ala sinistra, l'occupavano i Plateesi. E dal giorno di questa battaglia, quando gli Ateniesi offrono sacrifici durante le feste quadriennali, l'araldo di Atene invoca prosperità per i suoi concittadini e insieme anche per i Plateesi. Ma ecco cosa si verificò allorquando gli Ateniesi si schierarono a Maratona: il loro schieramento rispondeva in lunghezza a quello dei Medi, ma il centro era composto di poche file, e in questo punto l'esercito era assai debole, le due ali erano invece ben munite di soldati.

112) Quando furono ai loro posti e i sacrifici ebbero dato esito favorevole, gli Ateniesi, lasciati liberi di attaccare, si lanciarono in corsa contro i barbari; fra i due eserciti non c'erano meno di otto stadi. I Persiani vedendoli arrivare di corsa si preparavano a riceverli e attribuivano agli Ateniesi follia pura, autodistruttiva, constatando che erano pochi e che quei pochi si erano lanciati di corsa, senza cavalleria, senza arcieri. Così pensavano i barbari; ma gli Ateniesi, una volta venuti in massa alle mani con i barbari, si battevano in maniera memorabile. Furono i primi fra tutti i Greci, a nostra conoscenza, a tollerare la vista dell'abbigliamento medo e degli uomini che lo vestivano; fino ad allora ai Greci faceva paura anche semplicemente udire il nome dei Medi.

113) A Maratona si combatté a lungo. I barbari ebbero il sopravvento al centro dove erano schierati i Persiani stessi e i Saci; qui i barbari prevalsero, sfondarono le file dei nemici e li inseguirono nell'interno. Invece alle due ali la spuntavano gli Ateniesi e i Plateesi; essi, vincendo, lasciarono scappare i barbari volti in fuga, e operata una conversione delle due ali affrontarono quelli che avevano spezzato il loro centro; gli Ateniesi ebbero la meglio. Inseguirono i Persiani in fuga facendone strage, finché, giunti sulla riva del mare, ricorsero al fuoco e cercarono di catturare le navi.

114) In questa impresa morì il polemarco Callimaco, dimostratosi un uomo valoroso, e fra gli strateghi Stesilao, figlio di Trasilao; inoltre Cinegiro, figlio di Euforione, mentre si afferrava agli aplustri di una nave cadde con la mano troncata da un colpo di scure; e perirono molti altri illustri Ateniesi.

115) In tal modo gli Ateniesi catturarono sette navi nemiche; sulle rimanenti i barbari presero il largo e, caricati gli schiavi di Eretria dall'isola dove li avevano lasciati, doppiarono il Capo Sunio, con l'intenzione di arrivare ad Atene prima delle truppe ateniesi. In Atene corse poi la voce accusatrice che essi avessero concepito questo piano grazie alle macchinazioni degli Alcmeonidi. Essi, infatti, d'accordo con i Persiani avrebbero fatto segnali con uno scudo quando questi erano già sulle navi.

116) I Persiani, insomma, doppiavano il Sunio. Gli Ateniesi il più velocemente possibile corsero a difendere la città, e riuscirono a precedere l'arrivo dei barbari; partiti dal santuario di Eracle a Maratona, vennero ad accamparsi in un'altra area sacra ad Eracle, quella del tempio di Cinosarge. I barbari, giunti in vista del Falero (era quello allora il porto di Atene), sostarono alla sua altezza e poi volsero le prue e tornarono in Asia.

117) Nella battaglia di Maratona morirono 6400 barbari circa e 192 Ateniesi. Tanti caddero da una parte e dall'altra; lì accadde pure un fatto prodigioso: un soldato ateniese, Epizelo figlio di Cufagora, mentre combatteva nella mischia comportandosi da valoroso, perse la vista, senza essere stato ferito o colpito da lontano in alcuna parte del corpo, e, da allora in poi, per tutto il resto della sua vita, rimase cieco. Ho sentito dire che lui a proposito della sua disgrazia raccontava così: a Epizelo era parso di avere di fronte un oplita gigantesco, la cui barba faceva ombra a tutto lo scudo; questa apparizione gli era poi solo passata accanto, ma aveva abbattuto il soldato al suo fianco. Così, mi dissero, raccontava Epizelo.

118) Dati, in viaggio verso l'Asia assieme all'esercito, arrivato a Micono, ebbe nel sonno una visione. Quale fosse la visione non è tramandato, lui però, appena fu giorno, fece un'ispezione sulle navi e, avendo trovando su un vascello fenicio una statua di Apollo rivestita di oro, chiese dove fosse stata rapinata; quando seppe da quale tempio proveniva, partì con la sua nave per Delo. Nell'isola erano giusto giusto tornati i Deli; Dati depositò nel santuario l'immagine del dio e affidò ai Deli l'incarico di riportarla nel territorio di Tebe, a Delio, una cittadina costiera situata di fronte a Calcide. Dati, impartite tali disposizioni, salpò. I Deli poi non restituirono questa statua, furono i Tebani stessi, una ventina d'anni più tardi, a trasportarla a Delio per ordine di un oracolo.

119) Quanto agli Eretriesi fatti prigionieri, Dati e Artafrene, una volta raggiunta l'Asia, li condussero a Susa. Re Dario, prima che fossero resi schiavi, nutriva nei loro confronti un profondo rancore, perché gli Eretriesi erano stati i primi a macchiarsi di colpe. Ma dopo averli visti deportati presso di lui e completamente in sua balia, non fece loro alcun altro male che trapiantarli nella regione Cissia, in una stazione reale denominata Ardericca, distante 210 stadi da Susa e 40 dal pozzo che fornisce tre diverse sostanze. Da quel pozzo, infatti, si ricavano bitume, sale e petrolio, come segue: vi si attinge per mezzo di un mazzacavallo al quale invece di un secchio viene agganciato un otre tagliato a metà. Calato nel pozzo, l'otre si riempie e viene poi svuotato in una vasca di raccolta; dalla vasca il materiale viene travasato in un altro recipiente con tre esiti diversi: il bitume e il sale si rapprendono, il petrolio invece... I Persiani lo chiamano radinace: è scuro ed emana un cattivo odore. In tale località il re Dario fissò la residenza degli Eretriesi, i quali ancora ai tempi miei abitavano questo paese, conservando gelosamente la propria antica lingua. Questa la sorte toccata agli Eretriesi.

120) Dopo il plenilunio giunsero ad Atene duemila Spartani, con una tale fretta di arrivare in tempo che giunsero in Attica due giorni dopo la partenza. Pur essendo arrivati troppo tardi per la battaglia, desideravano lo stesso vedere i Medi: e si recarono a Maratona apposta. Poi, elogiati gli Ateniesi e la loro impresa, ripresero la via di casa.

121) Mi pare assurda, e mi rifiuto di accettarla, la diceria che gli Alcmeonidi abbiano mai fatto segnalazioni ai Persiani con uno scudo, in base a un accordo, volendo che Atene fosse sottomessa ai Persiani e a Ippia; proprio loro la cui palese ostilità alla tirannide supera più che uguagliare persino quella di Callia figlio di Fenippo, padre di Ipponico. Callia infatti, ogniqualvolta Pisistrato veniva cacciato da Atene, era l'unico fra tutti gli Ateniesi, che osava acquistarne i beni messi pubblicamente all'asta dal banditore; e in tutte le altre occasioni tramava ai suoi danni i progetti più ostili.

122)Di questo Callia è giusto che ognuno conservi memoria per varie ragioni: intanto per quel che ho già detto, perché si rivelò uomo di primo piano nel liberare la patria, poi per le imprese compiute a Olimpia: vinse la corsa a cavallo, giunse secondo con la quadriga (e aveva trionfato ai Giochi Pitici) e divenne famoso fra tutti i Greci per le sue enormi spese. Ecco inoltre come si comportò nei confronti delle figlie, che erano tre: quando giunsero all'età delle nozze, assegnò loro una dote grandiosa e concesse anche, dono inestimabile, di sposare, fra gli Ateniesi, l'uomo che ciascuna volle personalmente scegliersi.

123) Ora, gli Alcmeonidi odiavano la tirannide quanto Callia e non certo di meno. Di qui la mia meraviglia e il mio rifiuto della calunnia che a dare il segnale con lo scudo siano stati proprio gli Alcmeonidi, che passarono in esilio tutto il periodo della tirannide e con le loro manovre determinarono la caduta dei Pisistratidi. Insomma furono i liberatori di Atene molto più di Armodio e Aristogitone, a mio parere. Questi ultimi infatti assassinando Ipparco resero più feroci i Pisistratidi superstiti, e non misero fine per nulla al loro dominio, invece è evidente che Atene deve la sua libertà agli Alcmeonidi, se davvero essi convinsero la Pizia a ordinare agli Spartani di liberare Atene, come già ho chiarito.

124) Forse li spingeva a tradire la patria il risentimento contro il popolo ateniese? Ma non c'erano, almeno ad Atene, persone più stimate di loro, né oggetto di onori più grandi; sicché il buon senso ci impedisce di ammettere che abbiano fatto segnali con lo scudo per una ragione simile. Certo, lo scudo fu sollevato, non lo si può negare: il fatto è avvenuto. Ma sull'autore del gesto io non posso dire niente di più.

125) Gli Alcmeonidi, famosi ad Atene fin dai tempi più antichi, divennero particolarmente celebri a partire da Alcmeone e poi da Megacle. Ecco perché: Alcmeone, figlio di Megacle, prestava aiuto e assistenza con molto calore ai Lidi che da Sardi giungevano all'oracolo di Delfi per conto di Creso; e Creso, avendo sentito dire di lui, dai Lidi che si recavano all'oracolo, dei servigi che gli rendeva, lo invitò a Sardi e al suo arrivo gli regalò tanto oro quanto riuscisse a portare addosso in una sola volta. Alcmeone, di fronte a un dono di tal genere, ricorse a una trovata ingegnosa: si presentò nella camera del tesoro, dove lo accompagnarono, indossando un chitone enorme con una piega molto ampia in vita, e con ai piedi i coturni più grandi che era riuscito a trovare. Poi si lasciò cadere su un mucchio di polvere d'oro e cominciò a stipare i coturni, intorno alle gambe, con tutto l'oro che potevano contenere, quindi riempì l'intera sacca della veste e si cosparse d'oro i capelli del capo; se ne cacciò dell'altro in bocca e uscì dalla stanza trascinando a fatica i piedi: somigliava a tutto fuorché a un essere umano; aveva la bocca tappata ed era gonfio da ogni parte. A Creso, a vederlo, venne da ridere; gli concesse tutto quell'oro e gliene donò dell'altro, in misura non inferiore. Ecco come questa famiglia si arricchì grandemente e così questo stesso Alcmeone poté allevare cavalli da quadriga e vincere poi il primo premio a Olimpia.

126) Più tardi, la generazione successiva, il tiranno di Sicione Clistene innalzò talmente questa casata da farla diventare ancora più prestigiosa fra i Greci. Clistene, infatti, figlio di Aristonimo, nipote di Mirone e pronipote di Andres, ebbe una figlia di nome Agariste. Per lei voleva trovare il migliore fra i Greci e a quello darla in moglie. Era l'epoca delle Olimpiadi: Clistene, vincitore nella corsa delle quadrighe, emanò un pubblico bando: ogni Greco che si riteneva degno di diventare il genero di Clistene, doveva recarsi a Sicione entro e non oltre sessanta giorni, perché Clistene voleva definire le nozze in capo a un anno a partire da quel sessantesimo giorno. Allora tutti i Greci orgogliosi del proprio nome e della propria patria si presentarono a Sicione come pretendenti; per loro Clistene aveva fatto costruire appositamente una pista per la corsa e una palestra.

127) Dall'Italia comparvero Smindiride, figlio di Ippocrate, da Sibari, l'uomo che raggiunse i massimi livelli di eleganza (Sibari in quel periodo era all'apice dello splendore) e Damaso, da Siri, figlio di Amiri detto il Saggio. Costoro vennero dall'Italia. Dal Golfo Ionico Anfimnesto, figlio di Epistrofo da Epidamno: dal Golfo Ionico solo lui. Dall'Etolia arrivò Malete, fratello di Titormo, di quel Titormo, l'uomo fisicamente più robusto di tutta la Grecia, che aveva fuggito la comunanza con gli uomini andando a vivere nelle estreme contrade dell'Etolia. E dal Peloponneso Leocede, figlio di Fidone, il tiranno di Argo che aveva fissato le unità di misura per i Peloponnesiaci e che li offese, fra tutti i Greci, nel modo più violento: scacciò, infatti, gli Elei dalla direzione dei Giochi e si mise personalmente a organizzare le gare di Olimpia. Dunque, si presentò suo figlio. E capitarono Amianto, figlio di Licurgo, da Trapezunte d'Arcadia, e Lafane, dalla città di Peo, nell'Azania, figlio di quell'Euforione che, secondo una leggenda arcade, ospitò in casa sua i Dioscuri e da allora dava ospitalità a ogni essere umano; e dall'Elide venne Onomasto, figlio di Ageo. Questi giunsero dal Peloponneso stesso. Da Atene giunsero Megacle, figlio dell'Alcmeone che si era recato da Creso, e Ippoclide, l'uomo più ricco e bello di Atene, figlio di Tisandro. Da Eretria, fiorente in quegli anni, si presentò Lisanie, l'unico pretendente originario dell'Eubea; dalla Tessaglia Diattoride di Crannon, della stirpe degli Scopadi; dal paese dei Molossi, Alcone.

128) Tanti furono i pretendenti. Essi arrivarono il giorno previsto e Clistene per prima cosa si informò sulla città di provenienza e sulla stirpe di ciascuno; poi trattenendoli per un anno ne saggiò il coraggio, l'indole, l'educazione e i costumi, frequentandoli tutti, individualmente e collettivamente; impegnava i più giovani nel ginnasio e soprattutto li osservava nei banchetti comuni; per l'intero periodo in cui li trattenne si comportò così e intanto li ospitava magnificamente. E senza dubbio fra i pretendenti a soddisfarlo di più erano i due arrivati da Atene, e fra i due preferiva Ippoclide, figlio di Tisandro, sia per i suoi meriti sia perché vantava una antica parentela con i Cipselidi di Corinto.

129) Quando venne il giorno fissato per il banchetto nuziale, in cui Clistene stesso doveva rivelare il nome del prescelto, Clistene sacrificò cento buoi e invitò a tavola tanto i pretendenti come tutti i cittadini di Sicione. Alla fine del pranzo i pretendenti davano vita a gare musicali e di conversazioni brillanti; mentre i brindisi si protraevano Ippoclide, che era un po' al centro dell'attenzione generale, invitò il flautista a suonare un motivo di danza e quando il flautista obbedì cominciò a danzare. Lui certamente ballava con piena soddisfazione, ma Clistene che seguiva con molta attenzione, fu colto da qualche dubbio. Poi, Ippoclide, dopo una breve pausa, dispose che fosse portato un tavolo; quando il tavolo fu lì, vi danzò su dapprima figurazioni laconiche, poi una attica e infine, appoggiata la testa sulla tavola mosse le gambe in aria come se fossero braccia. Clistene, durante la prima e la seconda danza, benché disgustato, per la sconvenienza di quel balletto, dall'idea che Ippoclide diventasse suo genero, tuttavia si trattenne, evitando di inveire contro di lui; ma come vide le sue gambe imitare i movimenti delle braccia, non riuscendo più a frenarsi, esclamò: "Figlio di Tisandro, ti sei ballato le nozze!". E quello per tutta risposta ribatté: "A Ippoclide non gliene importa nulla".

130) Da allora questa espressione è divenuta proverbiale; Clistene, ottenuto silenzio, rivolse a tutti il seguente discorso: "Pretendenti di mia figlia, io vi lodo tutti e, se fosse possibile, vorrei far cosa a tutti gradita evitando di indicare un prescelto tra voi e di scartare gli altri; ma non è dato accontentare tutti dovendo decidere riguardo a un'unica fanciulla; comunque agli esclusi da queste nozze io donerò un talento d'argento, in cambio dell'onore resomi nel chiedere la mano di mia figlia e a compenso del soggiorno lontano dalla patria; a Megacle figlio di Alcmeone io prometto in sposa mia figlia Agariste secondo le leggi ateniesi". Quando Megacle ebbe dichiarato di accettarla, il matrimonio per Clistene era bell'e concluso.

131) Ecco dunque quanto accadde intorno alla scelta dei pretendenti; e fu così che la fama degli Alcmeonidi rimbalzò da un capo all'altro della Grecia. Dai due sposi nacque il Clistene che istituì le tribù e fondò la democrazia ad Atene: portava il nome del nonno materno di Sicione. Oltre a Clistene Megacle ebbe per figlio anche Ippocrate; da Ippocrate poi nacquero un altro Megacle e un'altra Agariste (si chiamava cioè come la figlia di Clistene Agariste); essa dopo aver sposato Santippo, figlio di Arifrone, durante una gravidanza ebbe nel sonno un incubo: sognò di dare alla luce un leone. E pochi giorni dopo generò a Santippo Pericle.

132) Dopo la disfatta persiana a Maratona Milziade, già prima assai ben visto ad Atene, era ancora di più in auge. Chiese agli Ateniesi settanta navi, truppe e denaro senza precisare il paese al quale voleva muovere guerra, ma sostenendo che seguendolo si sarebbero arricchiti, perché si trattava di un paese tale che ne avrebbero ricavato facilmente oro a profusione: accompagnava la richiesta di navi con simili discorsi. E gli Ateniesi, esaltati da queste assicurazioni, lo accontentarono.

133) Ricevuta la flotta, Milziade salpò alla volta di Paro, con il pretesto che i Pari avevano cominciato loro le ostilità, venendo a Maratona con una trireme assieme ai Persiani. Ma era solo un artificio verbale; in realtà Milziade nutriva un certo rancore nei confronti dei Pari a causa di Lisagora, figlio di Tisia, Pario di schiatta, che lo aveva calunniato presso il Persiano Idarne. Giunto a destinazione, Milziade con le truppe assediò i Pari asserragliati entro le mura; per mezzo di un araldo pretese cento talenti, dichiarando, se non li sborsavano, che non avrebbe spostato di lì l'esercito prima di averli sterminati. I Pari di versare il denaro a Milziade non se lo sognavano neppure; almanaccavano, invece, su come difendere la città: fra le varie contromisure pensate, dove la cinta di volta in volta si rivelava facilmente espugnabile, qui raddoppiavano di notte l'altezza originaria delle mura.

134) Fino a qui concordano i racconti di tutti i Greci, gli avvenimenti successivi secondo i Pari si sarebbero svolti così. A Milziade in difficoltà venne a parlare una donna fatta prigioniera, Paria di nascita e di nome Timo, sacerdotessa in sottordine delle divinità ctonie. Questa donna si presentò da Milziade e gli consigliò, se ci teneva tanto a conquistare Paro, di mettere in pratica i suoi suggerimenti. Gli diede le sue istruzioni; quindi Milziade, passando sopra la collina posta davanti alla città, scavalcò con un balzo il recinto di Demetra Tesmofora, di cui non poteva aprire le porte; scavalcatolo, si diresse verso la cella, per farvi dentro qualcosa, vuoi per rimuovere uno degli oggetti sacri e inviolabili o per compiere chissà mai quale altro gesto; giunse accanto alle porte e subito fu scosso da un brivido; e tornò indietro, seguendo lo stesso percorso; ma nel saltare giù dal muro a secco del recinto si slogò un femore. Altri raccontano che batté a terra un ginocchio.

135) Ebbene, Milziade date le sue cattive condizioni, ritornò ad Atene senza portare ricchezze agli Ateniesi e senza avere aggiunto Paro ai loro domini, ma dopo 26 giorni di assedio e di devastazioni nell'isola. I Pari, quando seppero che Timo, la sacerdotessa in sottordine delle dee, aveva guidato Milziade, volevano punirla per questo: dopo l'assedio, appena tornata la calma, inviarono una delegazione a Delfi per chiedere se potevano giustiziare la sacerdotessa delle dee accusata di aver indicato ai nemici della patria come espugnare la città e di aver rivelato a Milziade i sacri misteri interdetti al sesso maschile. Ma la Pizia non lo permise, affermando che non era Timo la colpevole di tutto ciò: anzi, poiché Milziade era destinato a una brutta fine, gli era apparsa per guidarlo verso la sventura.

136) Così rispose la Pizia ai Pari. Ad Atene il nome di Milziade, una volta tornato da Paro, era sulla bocca di tutti; e soprattutto sulla bocca di Santippo, figlio di Arifrone, che trasse Milziade davanti al tribunale popolare accusandolo di delitto capitale per aver tratto in inganno gli Ateniesi. Milziade, pur essendo presente, non si difese personalmente (ne era impossibilitato perché la coscia gli andava in cancrena); mentre giaceva lì su una barella gli amici parlarono in sua difesa, ricordando più volte la battaglia combattuta a Maratona e la presa di Lemno, cioè come Milziade, conquistata Lemno e presa vendetta sui Pelasgi, ne avesse poi fatto dono agli Ateniesi. Il popolo si pronunciò per una assoluzione dal reato capitale e lo condannò, in proporzione alla colpa, a una multa di cinquanta talenti. In seguito Milziade morì con la coscia putrefatta dalla cancrena e i cinquanta talenti li pagò suo figlio Cimone.

137) Ecco come Milziade, figlio di Cimone, si era impadronito di Lemno. I Pelasgi erano stati scacciati dall'Attica dagli Ateniesi, giustamente o meno, non saprei dirlo: io posso solo ripetere le versioni esistenti. Ebbene Ecateo, figlio di Egesandro, dichiarò nella sua opera che fu una ingiustizia: gli Ateniesi, secondo lui, videro la zona ai piedi dell'Imetto che avevano dato proprio loro da abitare ai Pelasgi come compenso per le mura costruite un tempo intorno all'acropoli, e provarono invidia nel vederla ben coltivata, mentre prima era sterile e priva di valore, e desiderarono quella terra; sicché ne scacciarono i Pelasgi, senza nessuna giustificazione. Dal canto loro gli Ateniesi sostengono di aver agito giustamente, perché i Pelasgi stanziati alle falde dell'Imetto, partendo da lì, si sarebbero macchiati della seguente colpa. Le figlie degli Ateniesi [e i figli] andavano regolarmente a prendere l'acqua alla fonte cosiddetta delle "Nove bocche" (a quell'epoca non avevano ancora schiavi, né loro né gli altri Greci); tutte le volte che le ragazze venivano, i Pelasgi le insultavano con insolenza e disprezzo. Ma questo ancora non gli bastava, e infine furono colti sul fatto mentre già macchinavano una aggressione. Gli Ateniesi, dunque, si sarebbero dimostrati ben superiori ai Pelasgi, perché potevano ucciderli tutti, avendoli sorpresi con cattive intenzioni, e invece non vollero farlo e li invitarono semplicemente ad andarsene dal paese. I Pelasgi, emigrati in tali circostanze, occuparono varie altre località, tra cui Lemno. Ecco dunque due versioni; la prima di Ecateo, la seconda degli Ateniesi.

138) Questi Pelasgi di Lemno, volendo vendicarsi degli Ateniesi e ben conoscendo le loro feste, si procurarono delle penteconteri e andarono a tendere un'imboscata alle donne ateniesi che celebravano a Braurone una festa in onore di Artemide; ne rapirono parecchie e si dileguarono con le navi: condussero le donne a Lemno e se le tennero come concubine. Esse, quando ebbero dei figli, insegnarono loro la lingua attica e i costumi degli Ateniesi. I bambini rifiutavano di mescolarsi coi figli delle donne pelasgie, e se uno di loro veniva picchiato da qualcuno di quelli là, tutti gli altri accorrevano in suo aiuto e si spalleggiavano a vicenda: pretendevano, inoltre, di dare ordini ai ragazzi pelasgi, ed erano molto più forti. I Pelasgi se ne accorsero e discussero fra di loro la situazione; e mentre tenevano consiglio un terribile pensiero si insinuò in loro: se i ragazzi già decidevano di aiutarsi l'un l'altro contro i figli delle mogli legittime e sin da allora tentavano di comandarli, che cosa mai avrebbero fatto da grandi? Allora decisero di uccidere i figli nati da donne ateniesi. Lo fecero e inoltre uccisero anche le madri. Da questo crimine e da quello precedente, compiuto dalle donne che assassinarono tutti i loro mariti al tempo di Toante, è sorta l'abitudine in Grecia di chiamare "Lemnie" tutte le azioni scellerate.

139) Ai Pelasgi che avevano massacrato i loro figli e le loro donne la terra non produceva più frutti e le donne, come il bestiame, avevano cessato di essere prolifiche. Oppressi dalla carestia e dalla sterilità, inviarono una delegazione a Delfi per chiedere come por fine ai guai in cui si trovavano. E la Pizia ordinò loro di pagare agli Ateniesi la pena che essi avessero stabilito. I Pelasgi, dunque, vennero ad Atene e dichiararono di voler espiare ogni loro colpa. Gli Ateniesi prepararono col più gran lusso possibile un lettuccio nel pritaneo, vi piazzarono accanto una mensa traboccante di ogni squisitezza e invitarono i Pelasgi a consegnare loro una Lemno in quelle condizioni. Ma i Pelasgi replicarono affermando: "Quando con vento di nord, in un solo giorno, una nave riuscirà a passare dal vostro paese al nostro, allora ve la consegneremo". Ben sapevano che era impossibile: l'Attica si trova molto a sud di Lemno.

140) In quella circostanza non accadde altro. Ma parecchi anni più tardi, quando il Chersoneso d'Ellesponto passò sotto il dominio degli Ateniesi, Milziade figlio di Cimone, con una nave e il favore dei venti etesii, colmò la distanza fra Eleunte nel Chersoneso e Lemno; e ordinò ai Pelasgi di sgombrare l'isola, ricordando loro la profezia che mai avrebbero creduto potersi compiere. I cittadini di Efestia obbedirono, quelli di Mirina invece, non riconoscendo l'identità fra Chersoneso e Attica, subirono un assedio, finché anch'essi si arresero. Fu così che gli Ateniesi e Milziade si impadronirono di Lemno.

 

                                                                                     

 

           

 

  

 

 

 

 

 

 

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