SERSE E LEONIDA. 

LA BATTAGLIA DELLE TERMOPILI


Seconda parte


130) Le guide, alla domanda di Serse se esisteva un altro sbocco del Peneo in mare, da buoni esperti risposero: "Sovrano, questo fiume non ha altra via d'uscita che giunga al mare; c'è solo questa. La Tessaglia è tutta circondata da una corona di montagne". Al che sembra che Serse abbia replicato: "Sono saggi i Tessali. Per questo dunque si sono premuniti assoggettandosi: fra l'altro perché occupavano una regione facile da occupare, conquistabile in pochissimo tempo. Basterebbe, infatti, convogliare il fiume contro il loro paese, facendolo rifluire dalla gola e deviare dall'attuale corso per mezzo di una diga, così da sommergere tutta la Tessaglia tranne le montagne". Parlava così alludendo ai discendenti di Aleva, perché, primi fra i Greci (erano Tessali), si erano sottomessi al re, e Serse credeva che gli promettessero amicizia a nome di tutto il popolo. Detto ciò e presa visione dei luoghi, se ne tornò a Terme.

131) In Pieria Serse trascorse diverse giornate; infatti un terzo delle truppe era impegnato a disboscare la montagna macedone, perché tutto l'esercito potesse inoltrarsi per quella via nel paese dei Perrebi. Tornarono gli araldi, inviati in Grecia a chiedere terra, chi a mani vuote, chi portando terra e acqua.

132) Fra quelli che avevano ceduto c'erano i Tessali, i Dolopi, gli Eniani, i Perrebi, i Locresi, i Magneti, i Maliesi, gli Achei della Ftiotide, i Tebani e gli altri Beoti tranne i Tespiesi e i Plateesi. Contro costoro i Greci che si erano assunti la guerra contro il barbaro pronunciarono un solenne giuramento che suonava così: tutti quelli che, pur essendo Greci, si erano arresi al Persiano senza esservi costretti, appena ristabilita la situazione sarebbero stati obbligati a pagare la decima al dio di Delfi. Così suonava il giuramento dei Greci.

133) Ad Atene e a Sparta Serse non inviò araldi a chiedere terra per le seguenti ragioni: quando in precedenza Dario aveva inviato identica richiesta, gli Ateniesi avevano gettato i messi nel baratro, gli Spartani in un pozzo, con l'invito a prendere da lì terra e acqua per portarla al re. Ecco perché Serse non mandò a essi dei messaggeri. Non so dire quale spiacevole conseguenza sia toccata agli Ateniesi per avere agito così contro gli araldi, se non che il loro paese e la loro città furono poi devastati; ma non credo che ciò sia accaduto per quella ragione.

134) Invece sugli Spartani ricadde l'ira di Taltibio, l'araldo di Agamennone. Infatti a Sparta c'è un santuario di Taltibio e ci sono suoi discendenti, che si chiamano Taltibiadi, cui tocca il privilegio onorifico di tutte le ambascerie inviate da Sparta. Dopo gli avvenimenti suddetti, gli Spartiati, quando sacrificavano, non riuscivano a ottenere auspici favorevoli, e il fenomeno si protraeva a lungo. Poiché gli Spartani, afflitti per questa loro sfortuna, spesso riunivano l'assemblea e chiedevano tramite araldo se c'era uno Spartano disposto a immolarsi per la patria, Spertia figlio di Aneristo e Buli figlio di Nicolao, Spartiati di nobili natali e fra i primi per ricchezza, si offrirono spontaneamente di dare a Serse soddisfazione per gli araldi di Dario uccisi a Sparta. E così gli Spartani inviarono i due in Persia, a trovarvi una morte sicura.

135) Degni di ammirazione furono il coraggio di questi eroi e inoltre le parole che ebbero a pronunciare. Mentre si recavano a Susa giunsero presso Idarne; Idarne era di schiatta persiana e comandante generale delle truppe costiere dell'Asia; egli offrì ai due Spartani un banchetto ospitale e durante il convito chiese loro: "Spartani, perché vi sottraete alla amicizia col re? Se guardate a me e alla mia condizione, potete vedere come il re sappia onorare i valorosi. Così sarebbe anche per voi, se fate atto di sottomissione al re (e già presso di lui avete fama di essere uomini di valore): ciascuno di voi diventerebbe governatore di un pezzo di Grecia, per designazione del re". A tali parole replicarono i due: "Idarne, il consiglio che ci dai non è imparziale: tu ci consigli avendo esperienza di una cosa e non dell'altra: sai bene che cosa significhi essere schiavi, ma la libertà non l'hai mai provata, non sai se è dolce o no. In effetti, se l'avessi provata, ci inviteresti a difenderla non solo con le lance, ma persino con le scuri".

136) Ecco cosa risposero a Idarne! Poi, saliti a Susa e giunti al cospetto di Serse, intanto quando i dorifori ordinarono loro, tentando di costringerli, di venerare il re prostrandosi davanti a lui, dichiararono che non l'avrebbero mai fatto, neppure se gli avessero abbassato la testa con la forza: non era loro costume adorare un essere umano e non erano certo venuti per questo. Dopo aver rifiutato tale gesto, rivolsero al re parole di questo tenore: "Re dei Medi, gli Spartani ci hanno mandato qui a espiare la loro colpa nei confronti degli araldi uccisi a Sparta". Al che Serse, con magnanimità, rispose che non avrebbe imitato gli Spartani, che avevano violato le leggi del genere umano uccidendo degli araldi: non avrebbe certo commesso il delitto che gli rinfacciava e non avrebbe liberato gli Spartani dalla colpa ammazzando loro due per rappresaglia.

137) Per questo atto degli Spartiati, benché Spertie e Buli fossero tornati in patria, l'ira di Taltibio momentaneamente si placò. Ma si ridestò molto tempo dopo, all'epoca della guerra fra Peloponnesiaci e Ateniesi, come raccontano gli Spartani. Sembra evidente, qui, un indiscutibile intervento divino. In effetti, che l'ira di Taltibio si abbattesse sui messaggeri e non cessasse prima di aver trovato soddisfazione, lo comportava giustizia; ma che ricadesse proprio sui figli degli uomini che per tale ira si erano recati dal re, cioè su Nicolao figlio di Buli e su Anaristo figlio di Spertia (l'uomo che approdò con una nave carica di soldati ad Aliei e la prese con tutti i suoi abitanti originari di Tirinto), questo poi, per me è chiaro, fu opera del cielo [a causa dell'ira]. Essi infatti, inviati dagli Spartani in Asia come messaggeri, furono traditi dal re dei Traci Sitalce, figlio di Tereo e da Ninfodoro figlio di Piteo, un cittadino di Abdera, e arrestati presso Bisante sull'Ellesponto; condotti in Attica, furono giustiziati dagli Ateniesi insieme con Aristea figlio di Adimanto, cittadino di Corinto. Ma questi avvenimenti si verificarono molti anni dopo la spedizione del re, e perciò ora riprendo il filo del precedente racconto.

138) La spedizione del re, formalmente muoveva contro Atene, ma in realtà era diretta contro tutta la Grecia. I Greci, che ne avevano avuto notizia con largo anticipo, non tenevano la cosa tutti in ugual conto: quanti avevano consegnato terra e acqua al re persiano confidavano di non patire danno alcuno dal barbaro; quelli che non l'avevano fatto erano in preda a un grande terrore, un po' perché in Grecia non c'erano navi sufficienti a reggere l'urto dell'invasione, un po' perché le masse non erano disposte a intraprendere la guerra e inclinavano volentieri a schierarsi coi Medi.

139) A questo punto mi sento obbligato a esprimere una opinione che i più respingeranno; tuttavia non mi asterrò dal dire quella che a me pare una verità. Se gli Ateniesi, terrorizzati dal pericolo incombente, avessero abbandonato il loro paese, o, senza lasciarlo, pur rimanendovi, si fossero arresi a Serse, nessuno avrebbe tentato di opporsi al re per mare. E se nessuno si fosse opposto a Serse sul mare, ecco cosa sarebbe accaduto in terraferma. Anche se i Peloponnesiaci avevano gettato molte cinta di mura da un capo all'altro dell'Istmo, gli Spartani, traditi dagli alleati (non per cattiva volontà, ma giocoforza, se le città capitolavano a una a una di fronte alla flotta del re), gli Spartani sarebbero rimasti soli; e una volta soli, pur avendo compiuto imprese eccezionali, sarebbero periti gloriosamente. O avrebbero fatto questa fine, oppure, ancor prima, vedendo anche gli altri Greci passare al nemico, si sarebbero accordati con Serse. E così, in entrambi i casi, la Grecia sarebbe stata sottomessa ai Persiani. Perché le fortificazioni erette sull'Istmo, non riesco a immaginare quale vantaggio avrebbero fornito, se il gran re era padrone del mare. Pertanto chi affermasse che gli Ateniesi furono i salvatori della Grecia, non si allontanerebbe dal vero; qualunque decisione, delle due, avessero preso, avrebbe pesato in maniera decisiva sul piatto della bilancia: essi decisero che la Grecia sopravvivesse libera, e furono loro a svegliare quella parte del mondo greco che non si era schierata coi Persiani, furono loro, con l'aiuto degli dèi, s'intende, a respingere il re. Neppure terrificanti oracoli provenienti da Delfi, che li gettavano nel panico, li indussero ad abbandonare la Grecia: rimasero e si prepararono a resistere all'invasione del loro paese.

140) A Delfi, infatti, gli Ateniesi avevano inviato degli incaricati perché erano propensi a consultare l'oracolo: compiuti gli atti rituali intorno al santuario, come entrarono e si sedettero nella sala, la Pizia, che si chiamava Aristonice, pronunciò il seguente responso:.."O sventurati, sedete? Fuggite ai confini del mondo! Dentro la cinta rotonda lasciate le case e la rocca! Nulla rimane di lei che sia saldo, nè capo nè tronco; L'ultime membra - i piedi e le mani e ogni cosa  del mezzo - Nulla è lasciato; ma viene distrutto, consunto dal fuoco! L'impeto d'Ares assale su carro di Siria: rovina , Non della tua solamente, ma ancor di molt'altre fortezze. E molti templi divini darà alla violenza del fuoco, Che di sudore cosparsi si stanno tremanti d'angoscia: Mentre dall'alto dei tetti atro sangue si versa,annunziando, Inevitabil sciagure. Ora uscite con l'anima in lutto!"... (Sventurati, perché state qui seduti? Fuggi ai limiti estremi del mondo lascia le case, le alte cime della tua città a forma di ruota. Né la testa né il corpo restano saldi né i piedi né le mani; e nulla di quel che c'è in mezzo rimane, tutto è desolazione; la distruggono fuoco e l'impetuoso Ares, che guida un carro assiro. Abbatterà numerose altre fortezze, non solo la tua; darà al fuoco devastatore molti templi degli dèi, che già ora si ergono trasudanti sudore, pallidi di paura; e giù dagli altissimi tetti scorre sangue nero, presagio di sciagura inevitabile. Uscite dal sacrario del dio; stendete sulle sciagure il vostro coraggio).

141)Udite queste parole, gli inviati ateniesi provarono un profondo dolore; si erano già persi d'animo, quando Timone figlio di Androbulo, uno fra i personaggi più ragguardevoli di Delfi, suggerì loro di prendere rami da supplici e in tale veste presentarsi una seconda volta a interrogare l'oracolo. Gli Ateniesi si lasciarono convincere e dissero al dio: "Signore, dacci un responso più favorevole per la nostra patria, per riguardo a questi rami da supplici, con i quali siamo qui davanti a te; altrimenti non lasceremo più il sacrario, ma resteremo qui finché non moriremo". Questo dichiararono; e l'indovina pronunciò questo secondo vaticinio:.." Pallade supplice con grave senno e con lunghi discorsi, Non può placare l'Olimpi. Ma io ti dirò una parola, Irrevocabile: quando di Cecrope il monte e i recessi, Del Citerone divino saranno conquisi, ad Atena, L'Onniveggente concede che un muro di legno rimanga, Inviolato, riparo che giovi per te e pei tuoi figli. E non restare in attesa tranquilla dei fanti e cavalli, Che numerosi verranno da terra; ma cedi piuttosto, Dando le spalle: affrontare più tardi potrai la battaglia. O Salamina divina! su te molti figli di donna, Quando cosparsa sia Demetra, o venga raccolta, morranno".... (Pallade non può propiziarsi Zeus Olimpio benché lo preghi con molte parole e con astuta saggezza a te darò questo secondo responso, rendendolo saldo come l'acciaio. Quando sarà preso tutto ciò che è racchiuso fra il monte di Cecrope e i recessi del divino Citerone, l'onniveggente Zeus concede alla Tritogenia che resti intatto soltanto il muro di legno, che salverà te e i tuoi figli. E tu non startene tranquillo ad attendere la cavalleria e la fanteria che irrompono in massa dal continente; ritirati, volgi le spalle; un giorno verrà in cui sarai di fronte al nemico. O divina Salamina, farai morire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra).

142) Poiché queste parole erano e parevano più benevole delle precedenti, le trascrissero e tornarono ad Atene. Quando gli inviati, al loro arrivo, riferirono al popolo, fra quanti cercavano di interpretare l'oracolo sorsero molti pareri diversi; ma cito i due più contrastanti. Alcuni dei più anziani dicevano che, secondo loro, il dio aveva predetto che l'acropoli si sarebbe salvata, dato che anticamente l'acropoli di Atene, era difesa da uno steccato di graticci. Questo steccato, secondo la loro interpretazione era il muro di legno; altri sostenevano che il dio si riferiva alle navi ed esortavano ad allestirne e a lasciar perdere il resto. Però quelli che spiegavano il muro di legno con le navi erano messi in imbarazzo dalle ultime parole pronunciate dalla Pizia:..."O Salamina divina!  Su te molti figli di donna, Quando cosparsa sia Demetra, o venga raccolta, morranno".... (O divina Salamina, farai morire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra). Su queste parole le idee di chi indicava nelle navi il muro di legno erano confuse; gli interpreti ufficiali di oracoli le intendevano nel senso che se gli Ateniesi avessero preparato una battaglia sul mare sarebbero stati sconfitti presso Salamina.

143) C'era però fra gli Ateniesi un uomo entrato di recente nel novero dei cittadini più autorevoli; si chiamava Temistocle ma era detto figlio di Neocle. Egli affermò che gli interpreti ufficiali non avevano spiegato rettamente l'intera faccenda e sosteneva che se davvero l'oracolo fosse stato rivolto agli Ateniesi, a suo parere non avrebbe detto così serenamente "Salamina divina", bensì "Maledetta Salamina", se davvero i cittadini stavano per morire nelle sue acque. Invece, a intenderlo correttamente, l'oracolo si riferiva ai nemici e non agli Ateniesi; li invitava dunque a prepararsi per la battaglia con le navi, perché proprio queste erano il muro di legno. Quando Temistocle chiarì in questo modo il senso del responso, gli Ateniesi ritennero la sua delucidazione preferibile a quella degli interpreti ufficiali, i quali non permettevano di prepararsi a una battaglia navale e, a dirla tutta, neppure di opporre resistenza, ma concedevano solo di abbandonare l'Attica e di stabilirsi in un altro paese.

144) Un'altra volta, in tempi precedenti, l'opinione di Temistocle aveva prevalso, quando alle grandi ricchezze che già affluivano nel pubblico tesoro di Atene, si erano aggiunti i proventi delle miniere del Laurio e i cittadini si accingevano a riceverne ciascuno la propria parte nella misura di dieci dracme a testa. In quell'occasione Temistocle aveva persuaso gli Ateniesi a rinunciare a spartirsi il denaro e a costruire con esso duecento navi "per la guerra", intendendo la guerra contro gli Egineti. Lo scoppio di questo conflitto finì per segnare la salvezza della Grecia, giacché costrinse gli Ateniesi a farsi marinai; le navi non servirono poi allo scopo per cui erano state costruite, ma risultarono pronte nel momento opportuno per la Grecia. Insomma erano disponibili queste navi, costruite già prima dagli Ateniesi, ma bisognava allestirne altre. Gli Ateniesi, riuniti in assemblea dopo il responso, decisero di sostenere l'urto del barbaro invasore con la flotta, obbedendo al dio, tutti uniti e con l'aiuto dei Greci disposti a seguirli.

145) Tali dunque erano stati i responsi ricevuti dagli Ateniesi. Poi, convenuti nello stesso luogo, i Greci meglio intenzionati nei confronti dell'Ellade si scambiarono pareri e pegni di fede; in consiglio decisero per prima cosa di porre fine alle rivalità e ai conflitti esistenti fra loro; ce n'erano parecchi in corso e in particolare il più grave coinvolgeva Ateniesi ed Egineti. Poi, saputo che Serse si trovava a Sardi, decisero di mandare esploratori in Asia a spiare le forze del re, ambasciatori ad Argo per stringere un'alleanza contro il Persiano, altri in Sicilia presso Gelone figlio di Dinomene e a Corcira, per premere per un soccorso a favore della Grecia, e altri ancora a Creta; l'idea era di verificare se mai il mondo greco si unisse in un blocco compatto, e se tutti, di comune accordo, intendessero agire di concerto, visti i gravi pericoli che incombevano in ugual misura su tutti i Greci. Le forze di Gelone avevano fama di essere ingenti, quali nessun'altra città greca poteva superare.

146) Prese queste decisioni e deposti i rancori, per prima cosa mandarono in Asia tre emissari come spie. Essi giunti a Sardi e assunte informazioni sulla spedizione del re, scoperti, furono sottoposti a tortura per ordine dei generali dell'armata terrestre e messi in carcere in attesa di esecuzione. Ne fu decretata la morte, ma Serse dal canto suo, appena ne fu informato, biasimò l'operato dei generali e inviò alcuni suoi dorifori con l'ordine di condurre al suo cospetto le spie, se le avessero trovate ancora vive. Li trovarono ancora vivi e li portarono dal re, il quale, conosciuto lo scopo della loro missione, comandò ai dorifori di condurli in giro e di mostrargli tutto l'esercito dei fanti e dei cavalieri; quando ne avessero avuto abbastanza di osservare, dovevano rilasciarli sani e salvi, liberi di andare dove volevano.

147) A questi ordini aggiungeva la seguente spiegazione: se le spie fossero morte, i Greci non sarebbero stati preavvisati che le sue forze erano superiori a qualunque descrizione, senza contare che uccidendo tre uomini non avrebbero certo inflitto un grave danno ai nemici. Serse era convinto, disse, che se le spie fossero tornate in Grecia, i Greci, sentendo parlare della sua potenza militare, avrebbero rimesso nelle sue mani la loro libertà e così si sarebbe evitato il fastidio di una spedizione contro di loro. Questa opinione somiglia a un'altra espressa dal re quando si trovava ad Abido. Aveva notato infatti delle imbarcazioni cariche di frumento provenienti dal Ponto, che attraversavano l'Ellesponto dirette a Egina e nel Peloponneso. I suoi consiglieri, quando si resero conto che si trattava di navi nemiche, erano pronti a catturarle e fissavano il re in attesa dell'ordine. Serse domandò loro dove fossero dirette ed essi risposero: "Dai tuoi nemici, signore, a portare grano". Replicò Serse: "E proprio dove vanno loro, non ci andiamo anche noi, riforniti di grano e di ogni altro bene? E quindi, che torto ci fanno, loro, a trasportare viveri per noi?".

148) Insomma, terminata la missione e rilasciate, le spie tornarono in Europa. Come seconda iniziativa dopo l'invio degli esploratori, i Greci che avevano giurato alleanza contro il Persiano mandarono messaggeri ad Argo. Ed ecco come andarono le faccende in casa degli Argivi, a sentir loro. Avevano appreso subito, fin da principio, le mosse del barbaro contro la Grecia; essendo al corrente e rendendosi conto che i Greci avrebbero cercato di aggregarli in una alleanza contro il Persiano, avevano inviato una delegazione a Delfi a chiedere al dio come comportarsi per ottenere il risultato migliore. Infatti di recente seimila Argivi erano caduti per mano degli Spartani e di Cleomene figlio di Anassandride e appunto per questo interrogavano il dio. Alle loro domande la Pizia avrebbe risposto così:..."Fà buona guardia, tenendo lo spiedo nel fodero,Argivo, Che, dai vicini odiato, ai Celesti sei caro; e difendi Bene il tuo capo; la testa poi ate salverà la persona.".... (Tu, odioso ai tuoi vicini e caro agli dèi immortali, stattene di guardia, con la lancia in pugno e proteggiti il capo: il capo salverà il corpo). Tale l'oracolo pronunciato, prima, dalla Pizia; poi quando giunsero ad Argo i messaggeri, questi si presentarono nella sala del consiglio e riferirono il messaggio di cui erano incaricati. Alle loro parole gli Argivi risposero di essere disposti ad accogliere l'invito, ma dopo aver stipulato con gli Spartani una pace trentennale e ottenuto il comando di una metà dell'intero esercito alleato; per la verità, dicevano, a voler essere giusti a loro spettava il comando in assoluto, tuttavia si sarebbero accontentati della metà.

149) Il consiglio, a sentire gli Argivi, rispose così benché l'oracolo proibisse loro di entrare nell'alleanza coi Greci; ma essi, pur paventando il responso, desideravano che ci fosse una tregua di trent'anni con gli Spartani perché in quel frattempo i loro figli diventassero adulti; senza la tregua temevano di finire in futuro sotto gli Spartani, nel caso avessero subito un'altra batosta contro i Persiani oltre alla sciagura già verificatasi. Alle dichiarazioni del consiglio i messaggeri che venivano da Sparta obiettarono che circa la tregua avrebbero riferito al popolo, quanto al comando supremo dell'esercito già avevano avuto ordine di replicare, e così stavano facendo, che a Sparta i re erano due, ad Argo uno; era quindi impossibile che uno dei due re Spartani cedesse il comando, mentre nulla impediva che dopo di loro ci fosse il re di Argo con parità di voto. E allora gli Argivi, come essi stessi affermano, non poterono tollerare l'arroganza degli Spartiati e preferirono prendere ordini dai barbari piuttosto che cedere su qualche punto agli Spartani: intimarono agli ambasciatori di lasciare il territorio di Argo prima del tramonto, altrimenti li avrebbero trattati come nemici.

150) Questa dunque è la versione degli Argivi su tali avvenimenti. Ma in Grecia la cosa si racconta diversamente: Serse avrebbe inviato un araldo ad Argo, prima ancora di muovere in armi contro la Grecia. L'araldo, una volta giunto, dichiarò: "Uomini d'Argo, ecco cosa vi dice re Serse: "Noi riteniamo che il nostro capostipite sia Perse, figlio di Perseo di Danae, generato dalla figlia di Cefeo Andromeda. In questo caso noi saremmo vostri discendenti. Pertanto non è giusto né che noi portiamo guerra ai nostri progenitori, né che voi, per aiutare altri, ci diventiate nemici; al contrario, è bene per voi restare a casa vostra in pace. Se tutto andrà come penso, non terrò nessuno in maggiore considerazione di voi"". Si racconta che gli Argivi, udito questo messaggio, gli diedero molta importanza; al momento nulla promisero e nulla pretesero; ma quando poi i Greci li invitarono a unirsi a loro, allora, ben sapendo che gli Spartani non avrebbero condiviso il comando supremo, lo richiesero, per avere un pretesto onde restare neutrali.

151) Concorda con questa versione anche ciò che alcuni Greci raccontano come accaduto molti anni dopo. Callia figlio di Ipponico e i suoi compagni di viaggio si trovavano a Susa, la città di Memnone, in veste di ambasciatori di Atene per trattare un'altra questione, e contemporaneamente anche gli Argivi avevano mandato a Susa una delegazione a chiedere ad Artaserse, figlio di Serse, se vigeva ancora per loro il patto di amicizia stretto con Serse, oppure se erano da lui tenuti in conto di nemici. E re Artaserse avrebbe risposto che il patto era valido più che mai e che non riteneva alcuna città più amica di Argo.

152) Io non sono in grado di affermare con sicurezza se Serse spedì ad Argo l'araldo che disse quello che disse, e se ambasciatori di Argo, saliti a Susa, interrogarono Artaserse sulla reciproca amicizia; e non esprimo in proposito alcuna opinione diversa da quella che gli Argivi stessi dichiarano. Quanto so è che se tutti gli uomini mettessero in comune le proprie private disgrazie con l'intenzione di scambiarle coi vicini, ciascuno, dopo essersi piegato a osservare da vicino le disgrazie del prossimo, si riporterebbe indietro con gioia quelle con cui era venuto. E così non si può dire neppure che gli Argivi abbiano toccato il fondo dell'abiezione. Ma io ho il dovere di riferire ciò che si racconta e non ho affatto il dovere di crederci (e questa affermazione valga per tutta la mia opera); e sì, perché anche questo si dice, che furono proprio gli Argivi, giacché male si era messa la guerra contro Sparta, a chiamare il Persiano contro la Grecia, disposti ad accettare qualunque destino piuttosto che la sciagura in cui si trovavano.

153) Degli Argivi si è detto. In Sicilia erano arrivati altri messi degli alleati per incontrarsi con Gelone, e fra gli altri in particolare Siagro, da Sparta. Un antenato di questo Gelone, che abitava a Gela, era originario dell'isola di Telo, che si trova presso il Trioprio; egli, all'epoca in cui Gela veniva fondata da Antifemo e dai Lindi di Rodi, li seguì. Col tempo i suoi discendenti divennero e continuarono a essere sacerdoti delle dee ctonie, prerogativa che Teline, uno degli antenati, si era procacciato come segue. Alcuni cittadini, rimasti sconfitti in uno scontro fra opposte fazioni di Gela, avevano trovato rifugio nella città di Mactorio, sopra Gela. Li ricondusse a Gela proprio Teline, che non aveva alcuna forza militare, ma solo i sacri oggetti di tali dee. Da dove li avesse presi o se sia stato lui a procurarseli, davvero non sono in grado di dirlo; comunque, fidando nel loro potere, li fece tornare alla condizione che i suoi discendenti fossero in futuro sacerdoti delle dee. Ebbene, circa le notizie da me raccolte mi lascia perplesso anche che a condurre a termine una così notevole impresa sia stato Teline; azioni del genere non sono compiute di solito da un uomo qualunque, ma da un animo valente, da una forza virile: Teline, a sentire gli abitanti di Sicilia, era uomo di tutt'altra, opposta natura, effeminato e molliccio.

154) Così, comunque, si guadagnò il privilegio su menzionato. Alla morte del figlio di Pantare Cleandro, che regnò su Gela per sette anni e morì per mano di un uomo di Gela, Sabillo, prese il potere Ippocrate, fratello di Cleandro. Al tempo della tirannide di Ippocrate, Gelone, discendente del sacerdote Teline, era doriforo di Ippocrate assieme a molti altri, tra i quali Enesidemo, figlio di Pateco. In breve tempo per il suo valore fu nominato comandante di tutta la cavalleria; infatti quando Ippocrate assediò Gallipoli, Nasso, Zancle, Lentini, nonché Siracusa e varie città barbare, Gelone in queste guerre si distinse in modo particolare. Nessuna delle città suddette, tranne Siracusa, sfuggì alla sottomissione da parte di Ippocrate. I Siracusani, sconfitti in battaglia sul fiume Eloro, furono salvati da Corinzi e Corciresi; ma essi li salvarono dopo aver accettato la condizione che Siracusa cedesse Camarina a Ippocrate. Anticamente Camarina apparteneva ai Siracusani.

155) Quando anche Ippocrate, dopo aver regnato tanti anni quanti suo fratello Cleandro, morì presso la città di Ibla, in una guerra da lui intrapresa contro i Siculi, ecco allora che Gelone finse di soccorrere i figli di Ippocrate Euclide e Cleandro, giacché i cittadini non volevano più essere loro soggetti, ma in realtà, sbaragliati in battaglia i cittadini di Gela, strappò ai figli di Ippocrate il potere e lo detenne personalmente. Dopo questo colpo di fortuna, Gelone fece rientrare da Casmene a Siracusa i Siracusani chiamati gamóroi che erano stati scacciati dal popolo e dai loro schiavi, detti Cilliri, e occupò anche questa città: infatti il popolo di Siracusa si arrese e consegnò la città a Gelone che l'aveva assalita.

156) Gelone, dopo aver preso Siracusa, trascurava Gela, che aveva affidato a suo fratello Gerone, e fortificava invece Siracusa: Siracusa per lui era tutto. La città crebbe e fiorì rapidamente. Per cominciare condusse a Siracusa tutti i cittadini di Camarina (di cui rase al suolo la rocca) e li rese cittadini; lo stesso fece con più di metà degli abitanti di Gela. Dei Megaresi di Sicilia, quando, assediati, vennero a patti, trasferì a Siracusa e rese cittadini i benestanti, quelli che avevano scatenato la guerra contro di lui e credevano per questo di fare una brutta fine; i popolani di Megara, invece, che non erano responsabili di questa guerra e che non si aspettavano di subire alcuna vendetta, li condusse pure a Siracusa, ma li vendette fuori della Sicilia. La stessa discriminazione applicò agli Euboici di Sicilia; agiva così nei confronti degli uni e degli altri, perché giudicava il popolino un coabitante assai molesto.

157) In tal modo Gelone era diventato un tiranno potente. Allora, quando giunsero a Siracusa, i messi dei Greci si presentarono a Gelone e gli dissero: "Ci hanno inviato qui gli Spartani, gli Ateniesi e i loro alleati per invitarti ad aderire alla lega contro il barbaro. Saprai certamente che sta assalendo la Grecia, che un Persiano, aggiogato l'Ellesponto e messosi alla testa di tutto l'esercito orientale, si accinge a marciare dall'Asia contro la Grecia, facendo mostra di dirigersi contro Atene, ma avendo in realtà in mente di mettere ai suoi piedi la Grecia intera. Ma tu hai raggiunto un alto livello di potenza, ti appartiene una frazione non minuscola della Grecia, giacché dòmini sulla Sicilia; vieni dunque in aiuto di chi difende la libertà della Grecia, concorri con noi a liberarla. Con tutta la Grecia unita, si raduna un esercito grande e diventiamo in grado di affrontare gli invasori. Ma se alcuni di noi tradiscono e altri negano aiuti e piccola risulta la parte sana della Grecia, allora si può già temere che la Grecia intera soccomba. Non sperare infatti che il Persiano, se ci sconfigge in battaglia e ci sottomette, non venga anche da te; devi prevenire questa circostanza: soccorrendo noi difendi te stesso. Se una impresa è preceduta da una buona riflessione, l'esito il più delle volte suole essere felice".

158) Questo dunque essi dissero, ma Gelone sbottando rispose: "Uomini di Grecia, con un discorso arrogante avete osato chiedermi di venire come vostro alleato contro il barbaro. Ma voi, prima, quando vi pregai di assalire con me un esercito barbaro, quando ero in guerra con i Cartaginesi, quando insistevo che si vendicasse Dorieo, figlio di Anassandride, ucciso dai Segestani, quando vi proponevo di concorrere a liberare gli empori dai quali avete ricavato grandi vantaggi e profitti, voi non siete venuti in mio soccorso, né per me né per vendicare l'uccisione di Dorieo; per quello che vi riguarda, tutto questo paese era in mano barbara. Ma poi le cose mi sono andate bene, anzi per il meglio; e ora che la guerra si è spostata ed è giunta da voi, ecco che ci si ricorda di Gelone! Comunque, anche se ho incontrato il vostro disprezzo, non farò come voi, anzi sono pronto ad aiutarvi fornendovi duecento navi, ventimila opliti, duemila cavalieri, duemila arcieri, duemila frombolieri e duemila effettivi di cavalleria leggera. E mi impegno a fornire vettovaglie per tutto l'esercito dei Greci, finché non avremo portato a termine la guerra. Tutto questo lo prometto a condizione di essere stratego e comandante dei Greci contro il barbaro. Altrimenti non mi unirò a voi personalmente e non vi manderò nessun altro".

159) Siagro, udite queste parole, non si trattenne ed esclamò: "Alti gemiti e lamenti lancerebbe Agamennone Pelopida se sapesse gli Spartiati derubati del comando supremo da Gelone e dai Siracusani! Puoi scordarti questa condizione, che ti cediamo il comando. Se desideri venire in soccorso della Grecia, sappi che dovrai obbedire agli Spartani; se non ti sembra giusto dover obbedire, restatene a casa!".

160) Al che Gelone, constatata l'ostilità delle parole di Siagro, pronunciò questo discorso conclusivo: "Ospite Spartiata, le offese che investono un uomo di solito lo incolleriscono; tu comunque, malgrado le insolenze del tuo dire, non mi hai portato a perdere l'equilibrio nella risposta. Visto che ci tenete tanto al comando supremo, è logico che anch'io ci tenga, più di voi, giacché sono a capo di un esercito più grande del vostro e di una flotta assai più numerosa. Ma se la mia condizione vi ripugna tanto, io recederò in qualcosa e vi propongo di guidare voi la fanteria e io la flotta; oppure, se vi aggrada comandare sul mare, accetto io di condurre la fanteria. E a questo punto o siete soddisfatti di queste condizioni, oppure ve ne andate senza l'alleanza di gente come noi: non c'è altro da fare".

161) Queste erano le proposte di Gelone; il messaggero ateniese, bruciando sul tempo quello spartano, replicò così: "Re di Siracusa, la Grecia ci ha mandati da te non perché ha bisogno di un capo, ma di un esercito. Tu a quanto sembra non sei disposto a inviare un esercito senza essere il capo della Grecia, tu aspiri a dirigerla militarmente. Finché tu chiedevi di guidare l'intero esercito dei Greci, a noi Ateniesi bastava starcene zitti, ben sapendo che lo Spartano era in grado di rispondere anche per tutti e due. Ora che, escluso dal comando supremo, chiedi di avere quello della flotta, eccoti come stanno le cose: anche se lo Spartano te lo concedesse, non te lo permetteremmo noi. Se non la vogliono gli Spartani, questa prerogativa è nostra; se essi desiderano averla, non ci opponiamo, ma non permetteremo a nessun altro di comandare le navi. Invano ci saremmo procurati le più ingenti forze marittime della Grecia, se poi cedessimo il timone ai Siracusani, noi, che siamo Ateniesi, che vantiamo la stirpe più antica, che siamo gli unici fra i Greci a non esserci mai mossi dalle nostre sedi! Anche Omero, il poeta epico, dichiarò che fu uno di noi il più abile tra quelli andati a Ilio a schierare in fila e in ordine un esercito. Questa è la verità e se la diciamo non possiamo per questo essere biasimati".

162) Replicò Gelone come segue: "Ospite ateniese, mi pare che voi abbiate chi comandi, ma non avrete chi obbedisca. Giacché volete avere tutto senza concedere nulla, è bene che vi affrettiate a tornarvene a casa al più presto, ad annunciare alla Grecia che dall'anno le è stata tolta la primavera". Questo il succo del discorso, che voleva dire: ovviamente, come nell'anno la primavera è la stagione più preziosa, così lo era nell'esercito greco la sua armata; paragonava quindi la Grecia privata della sua alleanza a un anno ipoteticamente privato della primavera.

163) Dopo tali negoziati con Gelone, i messi dei Greci ripartirono; Gelone dal canto suo temeva a questo punto che i Greci non fossero in grado di sconfiggere il barbaro, ma giudicava grave e intollerabile l'ipotesi di andare nel Peloponneso e di prendere ordini dagli Spartani, lui che era tiranno di Siracusa; evitò quindi di percorrere questa strada e ne seguì un'altra. Infatti, appena seppe che il Persiano aveva attraversato l'Ellesponto, inviò a Delfi con tre penteconteri un uomo di Cos, Cadmo figlio di Scite, con molto denaro e parole di amicizia, ad attendere l'esito della battaglia: se vinceva il barbaro doveva consegnargli il denaro e terra e acqua delle contrade su cui Gelone regnava; se invece vincevano i Greci, doveva tornare indietro.

164) Questo Cadmo, prima dei nostri avvenimenti, aveva ereditato dal padre la signoria di Cos, saldamente radicata, e poi, spontaneamente, senza che alcuna sciagura incombesse, bensì per senso di giustizia, aveva rimesso il potere nelle mani dei cittadini ed era partito per la Sicilia, dove tolse ai Sami la città di Zancle (quella che cambiò il suo nome in Messina) e vi si stabilì. Gelone mandava a Delfi proprio questo Cadmo, che era giunto in tal modo in Sicilia, per il senso di giustizia sperimentato da Gelone anche in altre circostanze; fra le varie sue oneste azioni Cadmo lasciò il ricordo anche della seguente, non certo la minore di tutte; potendo disporre delle ingenti ricchezze che gli aveva affidato Gelone, non volle impossessarsene, benché gli fosse possibile, ma, dopo il trionfo dei Greci nella battaglia navale e il ritiro di Serse e dei suoi, ecco che se ne tornò in Sicilia, portando indietro tutto il tesoro.

165) Fra gli abitanti della Sicilia circola anche questa versione, ossia che Gelone, pur nella prospettiva di prendere ordini dagli Spartani, avrebbe ugualmente aiutato i Greci, se Terillo, figlio di Crinippo, tiranno di Imera, scacciato da Imera ad opera di Terone, figlio di Enesidemo e tiranno di Agrigento, non avesse fatto venire in Sicilia proprio in quei giorni trecentomila uomini, tra Fenici, Libici, Iberici, Liguri, Elisici, Sardi e Cirnei, agli ordini del generale Amilcare, figlio di Annone e re dei Cartaginesi; Terillo lo aveva persuaso in base al vincolo di ospitalità che a sé lo legava e soprattutto grazie all'interessamento di Anassilao, figlio di Cretina, signore di Reggio, il quale aveva dato in ostaggio ad Amilcare i propri figli e lo spingeva contro la Sicilia per vendicare il suocero. Anassilao, infatti, aveva per moglie una figlia di Terillo, di nome Cidippe. Perciò Gelone avrebbe mandato i tesori a Delfi, perché non era più in condizione di inviare soccorsi ai Greci.

166) E aggiunsero anche questo; accadde che nello stesso giorno in cui Gelone e Terone in Sicilia sconfissero il Cartaginese Amilcare, anche a Salamina i Greci battevano i Persiani. Quanto ad Amilcare, che era cartaginese per parte di padre ma siracusano per parte di madre ed era diventato re dei Cartaginesi per il suo valore, scomparve, mi dicono, durante la battaglia, quando ormai si profilava la sconfitta: non lo si vide più, né vivo né morto, in nessuna parte del mondo; Gelone, in effetti, lo fece cercare dappertutto.

167) C'è un racconto in proposito, degli stessi Cartaginesi, che è verosimile. I barbari combatterono in Sicilia contro i Greci dall'aurora fino a sera tarda (tanto dicono che si protrasse la lotta), e nel frattempo Amilcare nell'accampamento offriva sacrifici e traeva auspici bruciando animali interi su una grande pira; quando vide i suoi uomini in fuga, egli, che era intento a versare libagioni sopra le vittime, si gettò nel rogo e così scomparve, divorato dalle fiamme. In onore di Amilcare scomparso, vuoi nel modo che raccontano i Fenici vuoi altrimenti, (come raccontano i Cartaginesi e i Siracusani), oggi essi offrono sacrifici; e in tutte le colonie fondate gli hanno eretto monumenti, uno dei quali, grandissimo, proprio a Cartagine.

168) E questo basti a proposito della Sicilia. Ecco piuttosto cosa risposero ai messaggeri i Corciresi e quale genere di comportamento tennero; pure loro, infatti, vennero sollecitati dagli stessi che erano andati in Sicilia e con il medesimo discorso rivolto anche a Gelone. I Corciresi lì per lì promisero di inviare aiuti e rinforzi, dichiarando intollerabile la rovina della Grecia; in effetti, dicevano, se la Grecia fosse caduta, non si aspettavano altro che di finire schiavi subito dopo; bisognava invece difenderla quanto più possibile. Risposero dunque con belle parole; al momento buono, però, cambiarono idea: equipaggiarono sì sessanta navi, ma, una volta salpati, a mala pena entrarono nelle acque del Peloponneso, e le tennero ferme all'ancora presso Pilo e il capo Tenaro, nel paese degli Spartani, aspettando anch'essi di vedere come pendevano le sorti della guerra, senza sperare nella vittoria dei Greci, bensì convinti che il Persiano, avendo prevalso di gran lunga, avrebbe dominato su tutta la Grecia. Si comportarono insomma in maniera studiata apposta per poter dire al Persiano: "Sovrano, quando i Greci ci sollecitavano a questa guerra, noi, che pure disponevamo di forze per niente trascurabili e di una flotta che non era la più piccola ma anzi la più numerosa, almeno dopo quella di Atene, noi non abbiamo voluto opporci a te, né operare in qualche modo a te sgradito". Con simili parole speravano di ottenere più degli altri; cosa che, a mio parere, sarebbe senz'altro accaduta. Nei confronti dei Greci si erano fabbricati una scusa di cui poi in effetti si servirono; quando i Greci li accusarono di non averli aiutati, risposero di aver allestito sessanta navi, ma che per colpa dei venti etesii non erano riusciti a doppiare il capo Malea; ecco perché non erano giunti a Salamina ed erano mancati allo scontro navale, senza malizia premeditata. In questo modo essi elusero le accuse dei Greci.

169) Ecco come si comportarono i Cretesi, quando i Greci in tal senso incaricati li invitarono nell'alleanza: mandarono a Delfi a nome di tutti una delegazione per chiedere al dio se fosse vantaggioso per loro soccorrere la Grecia. E la Pizia rispose: "Sciocchi, e poi vi lamentate di tutte le lacrime che vi fece versare Minosse, incollerito per l'aiuto portato a Menelao? I Greci non avevano collaborato a vendicare la sua morte a Camico, e voi invece li aiutaste a rivalersi per la donna rapita a Sparta da un barbaro". I Cretesi, come udirono queste parole riportate dai messi, si astennero dall'inviare aiuti.

170) Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d'assedio per cinque anni la città di Camico (ai tempi miei abitata dagli Agrigentini). Infine, non potendo né conquistarla né rimanere lì, oppressi com'erano dalla carestia, abbandonarono l'impresa e se ne andarono. Quando durante la navigazione giunsero sulle coste della Iapigia, una violenta tempesta li spinse contro terra: le imbarcazioni si fracassarono e giacché non vedevano più modo di fare ritorno a Creta, fondarono sul posto una città, Iria, e vi si stabilirono cambiando nome e costumi: da Cretesi divennero Iapigi Messapi e da isolani continentali. Muovendo da Iria fondarono altre città, quelle che molto più tardi i Tarantini tentarono di distruggere subendo una tale sconfitta da causare in quella circostanza la più clamorosa strage di Greci a nostra conoscenza, di Tarantini appunto e di Reggini. I cittadini di Reggio, venuti ad aiutare i Tarantini perché costretti da Micito figlio di Chero, morirono in tremila; i Tarantini caduti, poi, non si contarono neppure. Micito, che apparteneva alla casa di Anassilao era stato lasciato come governatore di Reggio ed è lo stesso che, scacciato da Reggio e stabilitosi a Tegea in Arcadia, consacrò a Olimpia numerose statue.

171) Ma le vicende di Tarantini e Reggini sono solo una parentesi nel mio racconto. A Creta, rimasta spopolata, a quanto dicono i Greci, si insediarono altre genti, specialmente Greci; due generazioni dopo la morte di Minosse scoppiò la guerra di Troia, nella quale i Cretesi si rivelarono non certo i più tiepidi fra gli alleati di Menelao. In ricompensa, al loro ritorno da Troia ebbero carestia e pestilenza, essi e il loro bestiame: Creta rimase spopolata per la seconda volta e gli attuali abitanti dell'isola sono una terza popolazione venuta ad abitare assieme ai superstiti. La Pizia, ricordando questi avvenimenti, li distolse dall'idea di soccorrere i Greci come desideravano.

172) I Tessali inizialmente si schierarono con i Medi per necessità, avendo ben fatto capire che le macchinazioni degli Alevadi non erano di loro gradimento. In effetti, appena venuti a sapere che il Persiano si accingeva a passare in Europa, inviarono messaggeri all'Istmo; all'Istmo si trovavano riuniti i delegati greci, scelti dalle città meglio intenzionate nei confronti dell'Ellade. Giunti al loro cospetto, i messaggeri Tessali dichiararono: "Uomini di Grecia, bisogna presidiare il valico dell'Olimpo, per tenere al riparo della guerra la Tessaglia e la Grecia intera. Noi siamo pronti a contribuire alla difesa, ma bisogna che anche voi mandiate un folto esercito; se non lo manderete, sappiatelo, noi verremo a patti col Persiano; non è ammissibile che solo noi, per il fatto di essere collocati vicino ai Persiani più degli altri Greci, dobbiamo perire per voi. Se non volete aiutarci, non siete in grado di imporci alcuna costrizione: nessuna costrizione può prevalere su ciò che è impossibile, e noi tenteremo da soli di trovare una via qualunque di salvezza". Così parlarono i Tessali.

173) E i Greci, di fronte a ciò, decisero di inviare in Tessaglia via mare un esercito di fanti a presidiare il passaggio; appena radunatesi, le truppe fecero rotta attraverso l'Euripo. Giunte ad Alo nell'Acaia, sbarcarono, si misero in marcia verso la Tessaglia, lasciate sul posto le navi, e arrivarono a Tempe al valico che dalla Macedonia inferiore conduce in Tessaglia lungo il fiume Peneo, fra i monti Olimpo e Ossa. Qui posero il campo; erano convenuti circa diecimila opliti greci, e a essi si aggiunse la cavalleria dei Tessali. Comandavano Spartani e Ateniesi rispettivamente Eveneto figlio di Careno, scelto fra i polemarchi benché non fosse di stirpe reale, e Temistocle figlio di Neocle. Rimasero lì pochi giorni; infatti dei messaggeri inviati dal Macedone Alessandro, figlio di Aminta, consigliarono loro di andarsene via, di non rimanere lì al valico a farsi schiacciare dall'esercito invasore (precisavano l'entità delle truppe e il numero delle navi); di fronte a questo avvertimento (avevano l'aria di dare buoni consigli e il Macedone si rivelava palesemente bene intenzionato nei loro confronti), i Greci seguirono il suggerimento. Secondo me a convincerli fu la paura, quando appresero che esisteva anche un altro accesso alla Tessaglia, nella Macedonia superiore attraverso il paese dei Perrebi, presso la città di Gonno, per dove effettivamente irruppe l'esercito di Serse. I Greci scesero verso il mare, si reimbarcarono e se ne tornarono indietro all'Istmo.

174) Questa spedizione in Tessaglia si verificò quando il re si apprestava a passare dall'Asia in Europa e si trovava ormai ad Abido. E fu così che i Tessali, abbandonati dagli alleati, si schierarono decisamente coi Persiani, senza tentennamenti, tanto da rivelarsi poi, nelle faccende della guerra, utilissimi al re.

175) I Greci, una volta giunti all'Istmo, discutevano, in relazione agli avvertimenti di Alessandro, come e dove impegnare la lotta. Prevalse il parere di presidiare il passo delle Termopili: era chiaramente un passaggio più stretto di quello che immetteva in Tessaglia, ed era l'unico abbastanza vicino al loro paese; del sentiero, attraverso il quale vennero sorpresi alle Termopili, i Greci ignoravano persino l'esistenza prima di averne notizia, ormai giunti alle Termopili, dagli abitanti di Trachis. Deliberarono di impedire al barbaro, presidiando questo passo, di penetrare in Grecia e decisero che la flotta si dirigesse al Capo Artemisio, nella Istieotide; sono due località vicine tra loro, sicché si poteva avere notizie di quello che accadeva da entrambe le parti. Ed ecco come si presentano questi posti.

176) Cominciamo con l'Artemisio. Dal mare di Tracia, da uno specchio aperto, si arriva in un modesto canale fra l'isola di Sciato e la penisola di Magnesia sul continente; a esso, ormai sull'Eubea, fa seguito la spiaggia di Artemisio, sulla quale sorge un tempio di Artemide. La via di accesso alla Grecia, poi, attraverso il paese di Trachis, misura mezzo pletro nel punto più stretto. Non sono qui, comunque, i passaggi più angusti di tutto questo paese, sono davanti e dietro le Termopili: presso Alpeni, dietro, per dove transita appena un carro, e all'altezza del fiume Fenice, davanti, vicino alla città di Antela, un altro varco che ha spazio per un carro soltanto. Il lato occidentale delle Termopili è un monte inaccessibile, scosceso, alto, che si protende fino all'Eta. Sul lato orientale si hanno subito mare e paludi. Nel passo vi sono dei bagni caldi, detti Chitri dalla gente del luogo, e vicino a essi sorge un altare di Eracle. Attraverso questo varco era stato edificato un muro, nel quale, almeno anticamente, c'erano delle porte. L'avevano costruito i Focesi, per paura, quando i Tessali arrivarono dal paese dei Tesproti per occupare l'Eolide (la terra appunto che oggi possiedono). Siccome i Tessali tentavano di sottometterli, i Focesi s'erano premuniti così: e convogliarono la sorgente calda nel passo perché il suolo si impaludasse, tutte studiandole per impedire ai Tessali di invadere il paese. Il muro vecchio era stato eretto in tempi remoti e col passare degli anni era ormai in gran parte rovinato al suolo. Gli uomini che lo rialzarono decisero di difendere la Grecia dal barbaro in quel punto. Vicinissimo alla strada c'è un villaggio, che si chiama Alpeni; da lì i Greci contavano di ricevere approvvigionamenti.

177) Questi luoghi, dunque, parevano adatti ai Greci: in effetti, dopo aver preventivamente esaminato ogni elemento e calcolato che i barbari non avrebbero potuto far valere né la superiorità numerica né la cavalleria, decisero di sostenere lì l'urto dell'invasore della Grecia. Quando poi seppero che il Persiano si trovava nella Pieria, partirono dall'Istmo e si diressero, gli uni, per via di terra, verso le Termopili, gli altri, per mare, verso l'Artemisio.

178) I Greci, quindi, accorrevano in fretta in assetto di guerra; nel frattempo gli abitanti di Delfi, spaventati per se stessi e per la Grecia, interrogavano l'oracolo del dio. E il responso fu un invito a rivolgere preghiere ai venti: i venti sarebbero stati grandi alleati della Grecia. Gli abitanti di Delfi, ricevuto il responso, per prima cosa ne divulgarono il contenuto fra i Greci desiderosi di restare liberi; e poiché costoro avevano una paura terribile del barbaro, riferendo l'oracolo se ne guadagnarono la gratitudine imperitura. Dopodiché dedicarono ai venti un altare in Tia, proprio dove sorge il santuario di Tia figlia di Cefiso, dalla quale prende il nome anche la località, e cercavano di accattivarseli con dei sacrifici.

179) Ancora oggi, in base a quell'oracolo, gli abitanti di Delfi offrono sacrifici propiziatori ai venti. La flotta di Serse, salpando dalla città di Terme, con le dieci navi che meglio tenevano il mare puntò dritto verso Sciato, dove stazionavano di vedetta tre navi greche, una di Trezene, una di Egina e una attica; i Greci, avvistate le navi dei barbari, si diedero alla fuga.

180) I barbari si lanciarono all'inseguimento e catturarono subito quella di Trezene, comandata da Prassino; trascinarono quindi sulla prua della nave il più bello dei suoi marinai e lo sgozzarono, ritenendo di buon augurio che il primo fra i Greci a essere ucciso fosse molto bello. La vittima si chiamava Leone; e forse subì le conseguenze del suo nome.

181) La nave di Egina, il cui trierarca era Asonide, li fece penare non poco, perché vi era imbarcato Pizio, figlio di Ischenoo, che quel giorno diede prova di grande valore: quando la nave stava per essere presa, resistette combattendo fino a che non fu completamente coperto di ferite. E siccome, quando cadde, non era morto ma respirava ancora, i Persiani a bordo delle navi, in considerazione del suo valore, se ne presero a cuore la salvezza: gli cosparsero di mirra le ferite, lo fasciarono con bende di finissimo bisso; e quando tornarono al campo base, lo mostrarono ammirati a tutta l'armata, circondandolo di premure. Gli altri che avevano catturato su questa nave li trattarono invece come schiavi.

182) Le prime due navi furono catturate così. La terza, il cui trierarca era Formo di Atene, fuggendo andò ad arenarsi alla foce del Peneo; i barbari misero le mani sullo scafo ma non sugli uomini, perché gli Ateniesi, appena ebbero fatto arenare la nave, balzarono a terra e marciando in territorio tessalo si portarono ad Atene.

183) I Greci di stanza all'Artemisio appresero questi accadimenti per mezzo di segnali luminosi da Sciato; quando ne furono al corrente, spaventati, si trasferirono dall'Artemisio a Calcide per presidiare l'Euripo, lasciando vedette sulle alture dell'Eubea. Tre delle dieci navi barbare si spinsero fino allo scoglio che sta fra Sciato e Magnesia e che si chiama Mirmeco. I barbari, eretta sullo scoglio una colonna di marmo che avevano portato con sé, salparono da Terme e, poiché l'ostacolo era stato rimosso, navigavano con tutta la flotta; avevano lasciato passare undici giorni dalla partenza del re da Terme. A segnalare loro l'esistenza dello scoglio nel bel mezzo del passaggio era stato Pammone di Sciro. Navigando per tutta la giornata i barbari raggiunsero il capo Sepiade nel territorio di Magnesia e la riviera compresa fra questo promontorio e la città di Castanea.

184) Fino a questa località e fino alle Termopili l'esercito non conobbe perdite e la sua consistenza allora continuava a essere la seguente, in base ai miei calcoli. Sulle navi d'Asia, che erano 1207, l'equipaggio originario composto dai vari popoli ammontava a 241.400 uomini, calcolandone duecento per nave; ma a bordo di queste navi, oltre ai marinai dei singoli paesi d'origine, c'erano trenta soldati fra Persiani, Medi e Saci, ossia un'altra caterva di 36.210 persone. A questo e al numero precedente aggiungerò ancora i marinai delle penteconteri, assumendo che più o meno su ciascuna ve ne fossero circa ottanta; di queste imbarcazioni, come ho detto anche prima, se ne erano radunate tremila; quindi su di esse dovevano esserci 240.000 uomini. Questa dunque era la flotta d'Asia: complessivamente 517.610 uomini. A terra poi i fanti erano 1.700.000, 80.000 i cavalieri. A costoro aggiungerò ancora gli Arabi che guidavano i cammelli e i Libici coi carri, per un ammontare di 20.000 uomini. Sicché, sommando gli effettivi sul mare e sulla terraferma, il totale risulta di 2.317.610 uomini. Questo, come si è detto, era l'esercito partito dall'Asia, senza contare il seguito dei servi, le imbarcazioni addette al trasporto delle vettovaglie e i loro equipaggi.

185) Ma si devono ancora sommare alla cifra fin qui raggiunta le truppe tratte dall'Europa; a questo proposito devo avanzare un'ipotesi. I Greci della Tracia e delle isole adiacenti alla costa tracia, fornivano 120 navi; il che fa 24.000 uomini. Della fanteria che fornirono Traci, Peoni, Eordi, Bottiei e le genti della Calcidica e Brigi, Pieri, Macedoni, Perrebi, Eniani, Dolopi, Magneti, Achei e quanti popolano la costa della tracia, da tutti questi popoli credo che si avessero 300.000 uomini. Queste miriadi sommate alle miriadi provenienti dall'Asia danno un totale di 2.641.610 combattenti.

186) Tale la cifra dei combattenti; quanto alla servitù che li seguiva, agli equipaggi delle imbarcazioni da carico e dei battelli che navigavano assieme all'armata, credo che essi fossero non meno ma più dei soldati. Comunque assumo che equivalessero in numero, non fossero né di più né di meno: e calcolati tanti quanti i combattenti, assommano ad altrettante miriadi. Pertanto Serse figlio di Dario fino al capo Sepiade e alle Termopili guidò 5.283.220 uomini.

187) Questi gli effettivi dell'intero esercito di Serse. Quanto al numero delle donne che facevano il pane, delle concubine e degli eunuchi, nessuno potrebbe precisarlo; e neppure degli animali da tiro e dell'altro bestiame da soma e dei cani d'India al seguito, neppure di questi, da tanti che erano, qualcuno potrebbe dire l'ammontare. Per cui non mi meraviglio affatto che si siano prosciugati dei fiumi, ma piuttosto mi stupisco che siano bastati i viveri a così tante decine di migliaia di persone. In effetti di calcolo in calcolo mi risulta che, se ognuno riceveva giornalmente una chenice di frumento e basta, ogni giorno ne venivano consumati 110.340 medimni. E non tengo conto delle donne, degli eunuchi, delle bestie da tiro e dei cani. E pur essendoci tante decine di migliaia di uomini, per bellezza e prestanza fisica nessuno di loro era più degno di Serse di avere tale comando.

188) La flotta, lasciati gli ormeggi, prese il largo e raggiunse nel territorio di Magnesia la spiaggia che sta fra la città di Castanea e il promontorio Sepiade; le prime navi attraccarono a riva, le altre dietro di esse gettarono l'ancora: dato infatti che la spiaggia non era lunga, ormeggiarono a scacchiera, prue verso il largo, su otto file di navi. Così andò quella notte. All'alba, cessarono sereno e bonaccia, il mare si scatenò e sui Persiani si abbatterono una grande tempesta e un forte vento di levante, che gli abitanti di queste regioni chiamano "d'Ellesponto". Quanti di loro si accorsero che il vento aumentava e quelli ormeggiati in modo adatto prevennero la tempesta tirando in secca le navi: e si salvarono, loro e i loro scafi. Invece tutte le navi che colse al largo, la tempesta le trascinò, in parte verso i cosiddetti Ipni del Pelio in parte verso la spiaggia: alcune cozzarono contro il Sepiade stesso, altre furono sbattute via verso le città di Melibea o di Castanea. Fu una tempesta mostruosa, senza scampo.

189) Si racconta che gli Ateniesi, in base a una profezia, avessero invocato Borea: avevano infatti ricevuto un altro responso, che li invitava a invocare come difensore il loro "genero". Secondo la leggenda dei Greci, Borea aveva una moglie attica, Orizia figlia di Eretteo; perciò gli Ateniesi, a quanto si dice, deducendo da questa parentela acquisita che Borea era il "genero" in questione, quando si accorsero che la tempesta cresceva, o anche prima (erano appostati con la flotta a Calcide in Eubea), offrirono sacrifici a Borea e a Orizia, pregandoli di venire in loro aiuto e di distruggere le navi dei barbari, come già prima all'Athos. Se fu per questo che Borea si abbatté sui barbari alla fonda, io non lo so: gli Ateniesi assicurano che Borea, che già in precedenza li aveva aiutati, anche allora fu autore di quella impresa; e, tornati a casa, gli edificarono un tempio sulle rive del fiume Ilisso.

190) Quelli che riferiscono le cifre più contenute dicono che in questo disastro andarono perdute non meno di quattrocento navi, un numero incalcolabile di uomini e immense ricchezze: al punto che questo naufragio riuscì assai vantaggioso a un uomo di Magnesia, Aminocle figlio di Cratine, che possedeva un terreno vicino al Sepiade; egli, nei giorni seguenti, raccolse molte coppe d'oro e molte d'argento gettate a riva dalle onde e trovò tesori dei Persiani e si impossessò di altri oggetti preziosi a volontà. Ma divenne molto ricco coi suoi ritrovamenti fortunati essendo disgraziato per altri versi: una dolorosa vicenda lo affliggeva, l'aver ucciso suo figlio.

191) Dei battelli adibiti al trasporto dei viveri e delle altre imbarcazioni distrutte non si faceva nemmeno il computo; tanto che i comandanti in capo della flotta, temendo che i Tessali piombassero su di loro quando erano già così malridotti, ordinarono di costruire coi relitti del naufragio un'alta barricata tutto intorno. La tempesta durò tre giorni; infine, immolando vittime, intonando a gran voce invocazioni al vento, e, ancora, sacrificando a Teti e alle Nereidi, il quarto giorno i Magi la placarono; oppure, semplicemente, la bufera decise da sola di cessare. A Teti sacrificarono per aver appreso dagli Ioni la leggenda che la voleva rapita da Peleo in quella località e che attribuiva a lei e alle altre Nereidi la tutela di tutta la riviera del Sepiade.

192) Comunque dopo tre giorni la tempesta era finita. Ai Greci le vedette, scese di corsa dalle alture dell'Eubea il giorno successivo allo scoppio della tempesta, segnalarono il naufragio in corso. I Greci, come lo seppero, dopo aver rivolto preghiere e versato libagioni a Posidone Salvatore, si affrettarono per tornare al più presto all'Artemisio, sperando di trovarsi di fronte poche navi nemiche; così per la seconda volta raggiunsero l'Artemisio e vi stazionarono, venerando Posidone, da allora e fino a oggi, con l'appellativo di Salvatore.

193) I barbari, quando cessò il vento e si calmarono le onde, tratte in mare le navi, veleggiarono lungo la costa, doppiando il promontorio di Magnesia e puntando dritto verso il golfo che porta a Pagase. C'è un luogo in questo golfo di Magnesia, dove, raccontano, Eracle, mandato fuori della nave Argo a cercare acqua, sarebbe stato abbandonato da Giasone e dai suoi compagni all'epoca della spedizione verso Ea nella Colchide alla ricerca del vello; da lì dovevano prendere il largo dopo essersi riforniti d'acqua, e per questo il luogo si chiamò Afete. Qui dunque le navi si misero all'ancora.

194) Ma quindici di queste navi, che erano salpate per ultime e si trovavano molto più indietro, finirono per avvistare la flotta dei Greci all'Artemisio; i barbari la scambiarono per la propria e andarono a cadere a vele spiegate fra i nemici. Le guidava il governatore di Cuma nell'Eolide, il figlio di Tamasi Sandoce, che prima di questi avvenimenti re Dario aveva condannato al supplizio del palo, quando era uno dei giudici reali, in base alla seguente colpa: Sandoce per denaro aveva pronunciato sentenze inique. E già era stato appeso, quando Dario, riflettendo, trovò che Sandoce aveva procurato più bene che male alla casa reale; stabilito questo e riconosciuto di aver agito più con fretta che con saggezza, Dario lo aveva liberato. Insomma, sfuggendo così a re Dario Sandoce si era salvato da morte sicura: ma questa volta, veleggiando verso i Greci, non doveva sfuggire più al suo destino. I Greci infatti, quando li videro avvicinarsi, avendo capito il loro errore li attaccarono e li catturarono facilmente.

195) Era imbarcato su una delle navi, e fu catturato, Aridoli tiranno di Alabanda in Caria; in un'altra il comandante Pentilo, di Pafo, figlio di Demonoo, che guidava dodici navi da Pafo, ma ne aveva perdute undici nella tempesta scoppiata al Sepiade: fu preso all'Artemisio con l'unica superstite. I Greci, avute da essi le informazioni che volevano sull'armata di Serse, li trasferirono, in catene, all'Istmo di Corinto.

196) La flotta dei barbari, escluse le quindici navi che, come ho detto, erano al comando di Sandoce, giunse ad Afete. Serse, che aveva attraversato la Tessaglia e l'Acaia, era penetrato già da due giorni nella Malide con le truppe di terra. In Tessaglia aveva indetto una corsa di cavalli per mettere alla prova la propria cavalleria e quella dei Tessali, avendo sentito dire che era la migliore di Grecia. I cavalli greci persero largamente il confronto. Tra i fiumi della Tessaglia solo l'Onocono non fu sufficiente all'armata che vi si abbeverò: tra i fiumi che scorrono in Acaia neppure il più grande, l'Epidano, neppure quello bastò, se non a malapena.

197) Quando Serse giunse ad Alo in Acaia, le guide del viaggio, che volevano spiegargli tutto, gli raccontarono una leggenda locale riguardante il tempio di Zeus Lafistio: gli narrarono come Atamante figlio di Eolo avesse tramato, di concerto con Ino, di uccidere Frisso; e come in seguito a ciò gli Achei, obbedendo a un oracolo, impongano ai suoi discendenti pene di questo tipo: al più anziano di questa schiatta vietano l'accesso al léito (gli Achei chiamano léito il pritaneo) e pensano loro a esercitare la sorveglianza; se vi entra, non può più uscirne prima di venir sacrificato; e ancora come molti di quelli che correvano il rischio di essere sacrificati, per paura, emigrassero in un altro paese; e se, tornati indietro dopo un po' di tempo, erano sorpresi a entrare nel pritaneo, le vittime erano condotte all'altare ciascuna cinta di bende e accompagnata da una processione. Questa sorte, poi, tocca ai discendenti di Citissoro figlio di Frisso per il fatto che, mentre gli Achei per ordine di un oracolo provvedevano a purificare il paese sacrificando Atamante, figlio di Eolo, e stavano ormai per immolarlo, sopraggiunse questo Citissoro, proveniente da Ea nella Colchide, e lo salvò; con questo gesto attirò sui propri discendenti l'ira del dio. Udito questo racconto, Serse, quando giunse all'altezza del bosco sacro, evitò di entrarvi personalmente e ordinò a tutti i suoi soldati di fare altrettanto, per rispetto tanto della casa dei discendenti di Atamante quanto del santuario.

198) Questo ciò che accadde in Tessaglia e in Acaia. Dalle suddette regioni Serse passò nella Malide, lungo un'insenatura marina in cui ogni giorno si genera un moto di flusso e riflusso. Intorno a questo golfo si estende un territorio pianeggiante, qui aperto là assai angusto; e tutto intorno si ergono montagne elevate e inaccessibili, che chiudono l'intera Malide e sono dette Rocce Trachinie. La prima città nel golfo per chi arrivi dall'Acaia è Anticira, presso la quale scorre e sfocia in mare il fiume Spercheo, che proviene dal paese degli Eniani. A circa venti stadi di distanza dallo Spercheo c'è un altro fiume, chiamato Dira, scaturito, si racconta, per soccorrere Eracle quando era ormai avvolto dalle fiamme. Ad altri venti stadi dal Dira c'è un terzo fiume, denominato Melas.

199) La città di Trachis dista cinque stadi da questo fiume Melas; qui, proprio dove sorge Trachis, si ha anche la parte più aperta del paese fra le montagne e il mare: 22.000 pletri di pianura. A sud di Trachis c'è una gola fra i monti che chiudono la Trachinia: attraverso questa gola, ai piedi della montagna, scorre il fiume Asopo.

200) A sud dell'Asopo c'è un altro torrente, il modesto Fenice, che scende dalle montagne e si getta nell'Asopo. È all'altezza del Fenice che si trova il varco più stretto del paese: vi è tracciata, infatti, appena una strada. Dal fiume Fenice alle Termopili ci sono quindici stadi. Nello spazio fra il Fenice e le Termopili sorge un villaggio, chiamato Antela, accanto al quale scorre l'Asopo prima di andare a sfociare in mare; e intorno al villaggio s'apre un'ampia zona, dove sorge il tempio di Demetra Anfizionide e dove sono situate le sedi degli Anfizioni e il tempio dello stesso Anfizione.

201) Il re Serse aveva il campo nella zona di Trachis, nella Malide; i Greci, invece, si accamparono nel passo. Questa località è chiamata Termopili dalla maggior parte dei Greci, ma Pile dalla gente del luogo e del vicinato. I due contendenti erano dunque attestati in queste località: il Persiano dominava tutta la parte settentrionale fino a Trachis, i Greci i territori verso Noto e mezzogiorno.

202) Ed ecco quali contingenti greci attendevano il Persiano in questa località: trecento opliti Spartiati, mille fra Tegeati e Mantinei (metà ciascuno); centoventi venivano da Orcomeno d'Arcadia e mille dal resto dell'Arcadia: tanti erano gli Arcadi; quattrocento erano gli uomini di Corinto, duecento di Fliunte e ottanta di Micene. Questi erano i Peloponnesiaci presenti. Dalla Beozia c'erano settecento Tespiesi e quattrocento Tebani.

203) A essi si aggiunsero, lì convocati, i Locresi Opunzi con tutte le loro forze e mille Focesi. I Greci, in effetti, li avevano chiamati in soccorso informandoli attraverso messaggeri di essere arrivati come avanguardia: che il resto dell'esercito alleato era atteso da un giorno all'altro, che il mare era sotto controllo, guardato da Ateniesi, Egineti e da quanti prestavano servizio nella flotta; che non avevano nulla da temere: non era un dio, dicevano, l'invasore della Grecia, ma un essere umano, e non c'era né ci sarebbe mai stato un uomo che dopo la nascita non venisse colpito da qualche disgrazia; anzi agli uomini più grandi toccano le sciagure più gravi; quindi anche il capo dell'esercito invasore, in quanto essere umano, era destinato a svegliarsi dai suoi sogni di gloria. E quelli, sentendo simili discorsi, erano accorsi nel paese di Trachis.

204) Ciascun contingente secondo la città di origine aveva un suo comandante, ma il più ammirato e capo di tutto l'esercito era lo Spartano Leonida, figlio di Anassandride, i cui avi erano, risalendo nel tempo: Leonte, Euricratide, Anassandro, Euricrate, Polidoro, Alcamene, Teleclo, Archelao, Egesilao, Dorisso, Leobote, Echestrato, Aghio, Euristene, Aristodemo, Aristomaco, Cleodeo, Illo, Eracle; inaspettatamente Leonida aveva raggiunto a Sparta la dignità di re.

205) Avendo, infatti, due fratelli maggiori, Cleomene e Dorieo, era stato ben lontano dal pensare al trono. Ma poi, morto Cleomene senza lasciare discendenza maschile e non essendoci più Dorieo, morto lui pure, in Sicilia, il trono toccava a Leonida, sia perché era più anziano di Cleombroto (cioè del più giovane tra i figli di Anassandride), sia in particolare perché aveva per moglie una figlia di Cleomene. In quell'occasione Leonida veniva alle Termopili dopo essersi scelto trecento uomini stabiliti che avessero figli. Giunse conducendo con sé dei Tebani (già li ho menzionati nel computo delle truppe), che erano agli ordini di Leontiade figlio di Eurimaco; Leonida si era preoccupato di prendere con sé dalla Grecia i soli Tebani per la seguente ragione: li si accusava, pesantemente, di parteggiare per i Medi; li sollecitò quindi alla guerra con l'intenzione di verificare se gli avrebbero mandato soldati o se avrebbero rifiutato apertamente di allearsi coi Greci. Essi gli inviarono truppe, benché fossero di tutt'altro orientamento.

206) Gli Spartiati avevano inviato per primi Leonida e i suoi perché gli altri alleati, vedendoli, scendessero in campo e non passassero anch'essi al nemico, se venivano a sapere che gli Spartani differivano la partenza. Poiché c'erano di mezzo le feste Carnee, contavano, più tardi, celebrate le feste e lasciato a Sparta un presidio, di accorrere in massa e con rapidità. E altrettanto pensavano di fare anche gli altri; infatti, nello stesso periodo, con questi avvenimenti erano venuti a coincidere i Giochi Olimpici; pertanto, non credendo che la guerra alle Termopili si sarebbe decisa così rapidamente, avevano inviato solo delle avanguardie.

207) Essi dunque pensavano di fare così. Ma i Greci alle Termopili, dopo l'arrivo del Persiano nei pressi del valico, ebbero paura e discutevano di una eventuale ritirata. Gli altri Peloponnesiaci erano del parere di tornare nel Peloponneso e di presidiare l'Istmo; invece Leonida, visto lo sdegno di Focesi e Locresi per questo parere, decise di restare lì e di inviare messaggeri nelle città a chiedere aiuti, giacché erano pochi per respingere l'esercito dei Medi.

208) Mentre essi si consigliavano così sul da farsi, Serse mandò un cavaliere in esplorazione a spiare quanti fossero e cosa stessero facendo; ancora in Tessaglia aveva saputo che lì si era radunato un piccolo esercito e che a comandarlo erano gli Spartani con Leonida, della stirpe di Eracle. Il cavaliere, avvicinatosi all'accampamento, poté spiare e osservare tutto tranne l'esercito: infatti non era possibile scorgere i soldati appostati al di là del muro che avevano eretto e presidiavano; osservò quelli di fuori, le cui armi giacevano davanti al muro. Lì in quel momento erano schierati per caso gli Spartani. E li vide intenti in parte a compiere esercizi fisici in parte a pettinarsi le chiome; stupefatto, li guardava e li contava. Memorizzato per bene ogni particolare, tornò indietro indisturbato: nessuno lo inseguì, incontrò l'indifferenza generale; tornato al suo campo, riferì a Serse tutto ciò che aveva veduto.

209) Serse, ascoltandolo, non riusciva a capire la realtà, e cioè che gli Spartani si preparavano a morire e a uccidere secondo le proprie forze; poiché anzi gli parevano intenti ad attività ridicole, mandò a chiamare Demarato, figlio di Aristone, che si trovava nell'accampamento. Quando fu da lui, Serse lo interrogò su ciascun particolare, desideroso di sapere cosa stessero combinando gli Spartani. E Demarato rispose: "Già mi hai sentito parlare di questa gente, quando eravamo in partenza per la Grecia: ma poi, dopo avermi ascoltato, ridevi di me, che esprimevo il mio parere sull'esito di questa spedizione. Sovrano, per me è una vera impresa praticare la verità di fronte a te. Ascoltami, dunque, anche ora. Questi uomini sono venuti a combattere contro di noi per il passo e ci si stanno preparando. Hanno infatti una regola che vuole così: allorquando si apprestino a mettere a rischio la propria vita si ornano la testa. Sappilo: se piegherai costoro e quelli rimasti a Sparta, non c'è altro popolo al mondo che ti contrasterà opponendosi a te con le armi; ora, in effetti, stai attaccando il regno più bello esistente fra i Greci, gli uomini più valorosi". Serse trovò tale discorso assai poco degno di fede e si rivolse a Demarato una seconda volta chiedendogli come avrebbero fatto gli Spartani a combattere in così pochi contro il suo esercito. E Demarato rispose: "Mio re, trattami pure da mentitore, se le cose non andranno come sostengo".

210) Con queste parole non lo convinse. Serse, pertanto, lasciò passare quattro giorni, sempre sperando che i Greci si ritirassero. Il quinto giorno, poiché non se ne andavano e anzi la loro permanenza gli pareva un atto di insolenza e di follia, Serse, infuriato, mandò contro di loro Medi e Cissi, con l'ordine di farli prigionieri e di condurli al suo cospetto. I Medi si gettarono contro i Greci; molti di essi caddero ma altri subentravano, e non indietreggiavano, benché subissero perdite gravi. Resero chiaro a chiunque, e per primo al re, che c'erano sì tanti uomini, ma pochi veri combattenti. La battaglia durò una giornata.

211) Allora, così duramente malconci, i Medi si ritirarono; ma presero il loro posto i Persiani, quelli che il re chiamava Immortali, agli ordini di Idarne: l'idea era che avrebbero chiuso la faccenda agevolmente. Quando anche questi si scontrarono coi Greci, non ottennero miglior risultato dei Medi, ma proprio lo stesso, perché affrontavano il nemico in uno spazio angusto, si servivano di lance più corte di quelle dei Greci e non potevano far valere la superiorità numerica. Gli Spartani lottarono in maniera memorabile, dimostrando in varie maniere di essere combattenti esperti fra gente che combattere non sapeva: tutte le volte che voltavano le spalle e accennavano a fuggire mantenevano serrate le file; i barbari, vedendoli ritirarsi si lanciavano all'attacco con urla e frastuono; ma gli Spartani, appena raggiunti, si voltavano e li affrontavano, e con questa tattica abbatterono un numero incalcolabile di Persiani. Lì caddero anche alcuni, pochi, fra gli Spartani. I Persiani non riuscendo a forzare in nessun punto il passo, per quanto ci provassero attaccando a frotte e in ogni altra maniera, si ritirarono.

212) Si racconta che durante questi assalti il re, che osservava la battaglia, sia balzato tre volte dalla sedia, in apprensione per il suo esercito. Quel giorno dunque combatterono così. Il giorno seguente i barbari lottarono senza miglior sorte; dato che quelli erano pochi, attaccavano sperando che, coperti di ferite, non sarebbero più stati in grado di opporre resistenza. Ma i Greci erano schierati per reparti e per città e si alternavano in prima linea, tranne i Focesi, che erano dislocati sulla montagna per sorvegliare il sentiero. Non trovando niente di diverso da quanto visto il giorno prima, i Persiani si ritirarono.

213) Proprio quando il re non sapeva più che fare in quel frangente, gli si presentò un abitante della Malide, Efialte figlio di Euridemo, certo convinto di ricevere da lui qualche grande ricompensa, e gli parlò del sentiero che portava alle Termopili attraverso i monti; e così segnò la fine dei Greci che là avevano resistito. In seguito, per paura degli Spartani, Efialte si rifugiò in Tessaglia; dopo la sua fuga, alla riunione degli Anfizioni a Pile, i Pilagori misero una taglia sulla sua testa e più tardi (era rientrato ad Anticira) morì per mano di un uomo di Trachis, Atenade. Atenade uccise Efialte per un'altra ragione, su cui mi soffermerò in un secondo tempo, ma non per questo fu meno onorato dagli Spartani.

214) Così dunque morì Efialte tempo dopo questi avvenimenti. Circola anche un'altra versione dei fatti: sarebbero stati un uomo di Caristo, Orete figlio di Fanagore, e l'Anticirese Coridallo a parlare al re e a indicare ai Persiani la strada intorno al monte; ma io non ci credo affatto. Intanto bisogna considerare che i Pilagori dei Greci non misero una taglia su Orete e Coridallo, ma su Efialte di Trachis, verosimilmente dopo aver raccolto le più sicure informazioni. Inoltre sappiamo che Efialte si era dato alla fuga per questa imputazione; in effetti anche senza essere della Malide, Onete avrebbe potuto conoscere quel sentiero, se aveva frequentato spesso quella regione, ma fu Efialte a mostrare il sentiero attorno al monte; il colpevole è lui e lui io scrivo.

215) Serse si compiacque di quanto Efialte gli prometteva di fare: subito, tutto allegro, ordinò a Idarne e ai suoi uomini di partire; si mossero dall'accampamento all'ora in cui si accendono i lumi. Questo sentiero era stato scoperto dai Maliesi del luogo; dopo averlo scoperto, per di là avevano guidato i Tessali contro i Focesi all'epoca in cui i Focesi, munito il passo con una muraglia, erano al riparo da azioni di guerra. Da così tanto tempo si era rivelato di nessuna utilità per i Maliesi.

216) Ed ecco il tracciato di questo sentiero. Inizia dal fiume Asopo, che scorre attraverso la gola del monte; monte e sentiero portano lo stesso nome, Anopea. Il sentiero Anopea si sviluppa sul dorso della montagna e termina nei pressi della città di Alpeno, che è la prima della Locride in direzione della Malide, vicino alla roccia detta di Melampigo e alle sedi dei Cercopi, dove si trova il punto più stretto del passo.

217) Seguendo tale sentiero fatto così, i Persiani, attraversato l'Asopo, marciarono tutta le notte, avendo a destra i monti dell'Eta e a sinistra quelli di Trachis. Spuntava l'aurora quando giunsero sulla vetta del monte. Nei pressi di questo monte, come ho già spiegato, erano di guardia mille opliti focesi, che difendevano la loro patria sorvegliando il sentiero; la via d'accesso inferiore, infatti, era presidiata da quelli che si è detto, i Focesi invece vigilavano sul sentiero, di loro iniziativa, dopo essersi impegnati in tal senso con Leonida.

218) Ecco come i Focesi si accorsero dei Persiani quando erano ormai lassù. I Persiani in effetti erano riusciti a salire senza farsi vedere perché il monte è tutto ricoperto di querce; c'era comunque calma nell'aria e quando il rumore divenne forte, come era naturale data la massa di foglie sparse sotto i piedi, i Focesi balzarono su e rivestirono le armi; e subito i barbari furono lì. Al vedere uomini intenti a prendere le armi, rimasero sbigottiti: si aspettavano di non trovare il minimo ostacolo e si erano imbattuti in un esercito. Idarne, temendo che i Focesi fossero Spartani, chiese a Efialte la nazionalità di quei soldati; ricevuta l'informazione esatta, dispose i Persiani in ordine di battaglia. I Focesi, fatti segno a ripetuti e fitti lanci di frecce, si rifugiarono in ritirata sulla cima del monte, credendo che i nemici fossero venuti ad attaccare proprio loro, ed erano pronti a morire. Questo pensavano, ma i Persiani di Efialte e di Idarne, senza affatto badare ai Focesi, in fretta e furia, scesero giù dalla montagna.

219) Ai Greci di stanza alle Termopili il primo a predire la morte che li avrebbe colti all'aurora era stato l'indovino Megistia, dopo aver osservato le vittime dei sacrifici. Poi dei disertori portarono notizia dell'accerchiamento persiano (la segnalazione era arrivata quando era ancora notte). Il terzo avviso lo diedero le sentinelle che corsero giù dalle alture, ormai allo spuntare del giorno. Allora i Greci tennero consiglio e i pareri erano divergenti: c'era chi proibiva che si abbandonasse la posizione e chi premeva per il contrario. Quindi si divisero: alcuni di loro si allontanarono, e, sbandatisi, rientrarono nelle rispettive città, altri erano pronti a restare lì assieme a Leonida.

220) Ma si racconta anche che fu Leonida a congedarli: si preoccupava, pare, di sottrarli alla morte, mentre a lui e agli Spartiati presenti non si addiceva abbandonare la postazione che erano venuti espressamente a presidiare. Io sono pienamente d'accordo con questa versione; di più: sono convinto che Leonida, quando si accorse che gli alleati erano scoraggiati e poco disposti a condividere i pericoli, abbia ordinato loro di andarsene, pensando però che a lui la ritirata non conveniva: restando lì lasciava di sé un glorioso ricordo, senza intaccare la prosperità di Sparta. In effetti agli Spartani che la interrogavano circa questa guerra, subito all'inizio delle operazioni, la Pizia aveva risposto che o Sparta sarebbe stata distrutta dai barbari o il suo re sarebbe morto. Ecco il testo dell'oracolo pronunciato in versi esametri:..."O abitanti di Sparta, la vostra città gloriosa Da discendenti di Perseo è distrutta, o la terra lacena Piangere deve la morte del re della stirpe di Eracle: Poichè non furia di tori o leoni trattien l'invasore. Zeus in lui l'impeto infonde; e non credo si fermi fin quando O la cittade o il rege non abbia del tutto sbranato"... (Voi che abitate l'ampia pianura di Sparta, o la vostra grande e gloriosa città dai discendenti di Perseo viene distrutta, oppure no, ma allora il paese di Lacedemone piangerà la morte di un re della stirpe di Eracle. No, non lo tratterrà la forza né dei tori né dei leoni, faccia a faccia; dispone della forza di Zeus; e dico che non si fermerà prima di aver fatto a pezzi l'una o l'altra). Ritengo quindi che Leonida, pensando a queste parole e volendo assicurare la gloria ai soli Spartani, abbia congedato gli alleati e non che quanti se ne andarono se ne siano andati così malamente, nella discordia.

221) A questo riguardo esiste una prova niente affatto trascurabile. Anche l'indovino al seguito dell'esercito, che si diceva discendesse da Melampo, Megistia d'Acarnania, e che osservando le vittime aveva predetto l'immediato futuro, fu congedato da Leonida, come risulta chiaramente, perché non morisse con loro. Ma lui, benché mandato via, rimase e allontanò invece il figlio, a sua volta presente nella truppa, il solo che avesse.

222) Insomma, gli alleati dimessi da Leonida se ne andarono via e gli obbedirono, ma Tespiesi e Tebani rimasero, soli, presso gli Spartani. I Tebani restavano contro voglia e loro malgrado (Leonida in effetti li tratteneva tenendoli in conto di ostaggi), i Tespiesi invece per loro precisa scelta: rifiutarono di andarsene abbandonando Leonida e i suoi, e così, rimanendo sul posto, ne condivisero la sorte. Il loro comandante era Demofilo, figlio di Diadrome.

223) Serse, dopo aver offerto libagioni al sorgere del sole, attese fino all'ora in cui la piazza del mercato è più affollata e quindi ordinò l'assalto; così gli aveva suggerito Efialte: infatti la discesa dal monte è assai più rapida e la distanza molto minore che non l'aggiramento e la salita. I barbari di Serse avanzavano e i Greci di Leonida, da uomini che marciavano incontro alla morte, si spinsero ormai molto più che all'inizio verso lo spazio più aperto della gola. In effetti nei giorni precedenti si difendeva il baluardo del muro ed essi combattevano ritirandosi lentamente verso i punti più stretti; allora invece, scontrandosi fuori dalle strettoie... molti dei barbari cadevano a frotte; dietro di loro infatti, i comandanti degli squadroni, armati di frusta, tempestavano di colpi ogni soldato, spingendoli avanti continuamente. Molti finirono in mare e annegarono, molti di più ancora morivano nella calca calpestandosi a vicenda: nemmeno uno sguardo per chi cadeva. I Greci, sapendo che sarebbero morti per mano di quanti avevano aggirato la montagna, mostravano ai barbari tutta la propria forza, con disprezzo della propria vita, con rabbioso furore.

224) Alla maggior parte di loro, intanto, s'erano ormai spezzate le lance, ma massacravano i Persiani a colpi di spada. E Leonida, dopo essersi comportato veramente da valoroso, cadde in questo combattimento e con lui altri Spartani famosi, dei quali io chiesi i nomi, trattandosi di uomini degni di essere ricordati; e chiesi anche i nomi di tutti i trecento. Caddero allora anche molti altri illustri Persiani, fra i quali due figli di Dario, Abrocome e Iperante, nati a Dario dalla figlia di Artane Fratagune; Artane era fratello di re Dario e figlio di Istaspe di Arsame. Artane nel cedere la figlia in sposa a Dario le assegnò in dote l'intero patrimonio, perché Fratagune era la sua unica figlia.

225) Colà caddero dunque combattendo due fratelli di Serse. Sopra il cadavere di Leonida si accese una mischia furibonda di Persiani e Spartani, finché grazie al loro eroismo, i Greci lo strapparono ai nemici respingendoli per quattro volte. Questo durò fino all'arrivo degli uomini di Efialte. Dal momento in cui i Greci seppero del loro arrivo la battaglia mutò ormai aspetto: i Greci riguadagnarono di corsa la strettoia della strada, superarono il muro e andarono a prendere posizione sulla collina, tutti quanti assieme tranne i Tebani. La collina si trova all'ingresso del passo, dove oggi si erge in onore di Leonida il leone di marmo. Lassù si difendevano colle spade (chi ancora le aveva), con le mani, coi denti; i barbari li tempestavano di colpi, di fronte quelli che li avevano seguiti e avevano abbattuto il baluardo del muro, intorno da tutte le parti gli altri che li avevano aggirati.

226) Spartani e Tespiesi si comportarono altrettanto bene, ma il più valoroso si narra sia stato lo spartano Dienece, che prima dello scontro coi Medi avrebbe pronunciato la seguente battuta. Sentendo dire da uno di Trachis: "Quando i barbari scaglieranno le frecce, copriranno il sole con la moltitudine dei dardi" (tante erano le frecce), Dienece non rimase per nulla scosso da questa osservazione e rispose, mostrando di disprezzare il numero dei nemici, che l'ospite di Trachis stava dando tutte notizie magnifiche: visto che i Medi oscuravano il sole, contro di loro la battaglia si sarebbe svolta all'ombra e non al sole.

227) Queste e altre simili battute lo spartano Dienece lasciò a ricordo di sé, secondo quanto si racconta. Dopo di lui gli Spartani dicono che abbian dato eccellente prova di sé due fratelli, Alfeo e Marone figli di Orsifanto. Fra i Tespiesi si segnalò maggiormente uno che si chiamava Ditirambo, figlio di Armatide.

228) In onore di quanti furono sepolti esattamente là dove caddero e di quanti erano morti prima che partissero i Greci dimessi da Leonida, sono scolpite le seguenti parole:..."Contro trecento miriadi combatterono quì D'uomini quatro migliaia venuti dal Peloponneso."... (Qui, un giorno, contro tre milioni di nemici combatterono quattromila Peloponnesiaci). La precedente iscrizione vale per tutti, la seguente per i soli Spartani:..."Ospite, vanne; e a Sparta tu reca l'annunzio, che quì Per ubbidire alle leggi di lei noi giaciamo"... (Straniero, porta agli Spartani la notizia che noi giacciamo qui, obbedendo ai loro ordini). Così per gli Spartani; in onore dell'indovino:..."Il monumento è questo  del glorioso Megistia. Dello Spercheo la corrente varcando, l'uccisero i Medi: Quando, indovino ben certo del sopravvenir delle Parche, Il condottiero di Sparta lasciare e salvarsi non volle".... ( Questa è la tomba del famoso Megistia, ucciso, un giorno dai Medi che avevano varcato il fiume Spercheo, dell'indovino che allora, pur conoscendo il suo destino di morte, si rifiutò di abbandonare il comandante di Sparta). Esclusa la scritta relativa all'indovino, furono gli Anfizioni a onorarli con iscrizioni e con stele. La stele dell'indovino fu fatta scolpire da Simonide figlio di Leoprepe, per ragioni di amicizia.

229) Due dei trecento, Eurito e Aristodemo, si racconta, potendo entrambi accordarsi e mettersi insieme in salvo a Sparta (Leonida li aveva allontanati dall'accampamento, e giacevano infermi ad Alpeni, con gravissimi disturbi agli occhi) oppure morire con gli altri, se non volevano tornare a casa, pur avendo queste due alternative, non vollero intendersi, anzi, in pieno disaccordo, Eurito, avendo saputo della manovra accerchiante dei Persiani, chiese le armi, le indossò e ordinò al suo ilota di condurlo fra i combattenti; quando ve lo ebbe condotto l'ilota fuggì, mentre Eurito si gettava nel folto dei nemici e moriva; Aristodemo, invece, non ebbe animo sufficiente e sopravvisse. Ebbene, se Aristodemo fosse stato infermo lui solo e fosse tornato a Sparta, oppure anche se fossero tornati tutti e due assieme, credo che gli Spartani non si sarebbero sdegnati con loro; invece, poiché uno di loro era morto e l'altro invece, che aveva un'identica giustificazione, s'era rifiutato di farlo, inevitabilmente su Aristodemo ricadde, e pesante, l'ira degli Spartani.

230) Corre voce che Aristodemo si mise in salvo a Sparta così e con questa spiegazione; ma altri raccontano che era stato inviato come messaggero fuori dell'accampamento e poi, pur potendo raggiungere la battaglia in corso, non volle farlo, si attardò lungo il percorso e si salvò; mentre il suo compagno di missione riuscì a riunirsi ai combattenti e cadde sul campo.

231) Tornato a Sparta, Aristodemo fu coperto di vergogna ed emarginato, emarginato come segue: nessuno Spartiata gli accendeva il fuoco o gli rivolgeva la parola; subì l'onta di sentirsi chiamare "Aristodemo il vigliacco".

232) Ma nella battaglia di Platea si riscattò da questa imputazione. Si narra che anche un altro di questi trecento, di nome Pantite, inviato messaggero in Tessaglia, poté salvarsi: costui, al suo ritorno a Sparta, vedendosi disonorato, si impiccò.

233) I Tebani, agli ordini di Leontiade, finché furono con i Greci combatterono, per necessità, contro l'armata del re. Quando videro che i Persiani avevano la meglio, allora, mentre i Greci con Leonida si affrettavano verso la collina, si separarono da loro, andarono incontro ai barbari con le mani protese dicendo, ed era una cosa verissima, che parteggiavano per i Medi, che erano stati fra i primi a dare terra e acqua al Persiano, che erano venuti alle Termopili perché costretti, che non erano responsabili dei gravi colpi subiti dal re; sicché con tali scuse si salvarono. In effetti, a comprovare quanto dicevano c'era la testimonianza dei Tessali. Comunque non ebbero fortuna totalmente: i barbari, li catturarono al loro arrivo, alcuni li uccisero mentre si avvicinavano e alla maggior parte, per ordine di Serse, impressero il marchio reale, a cominciare dal comandante Leontiade, il cui figlio Eurimaco, tempo dopo, lo uccisero i Plateesi perché alla testa di quattrocento Tebani aveva occupato la rocca di Platea.

234) Così combatterono i Greci alle Termopili; Serse chiamò Demarato e lo interrogò cominciando da questa domanda: "Demarato, sei un uomo capace, lo deduco dalla realtà: tutto ciò che avevi predetto si è verificato. Ora dimmi un po' quanti sono gli Spartani rimasti e quanti di loro sono dello stesso genere in battaglia, o se lo sono tutti". Demarato rispose: "Sovrano, il numero complessivo degli Spartani è alto e molte sono le loro città; ma saprai quello che vuoi apprendere. Nella piana della Laconia c'è la città di Sparta, che conta circa ottomila uomini; e sono tutti pari a quelli che hanno combattuto qui; gli altri abitanti della Laconia no, non sono pari; ma valgono anche loro". E Serse riprese: "Demarato, come faremo a battere questa gente senza penare troppo? Spiegamelo, perché tu conosci i particolari dei loro piani, sei stato re a Sparta".

235) Demarato rispose: "Sovrano, se ci tieni tanto ad avere un mio parere, è giusto che io ti dia il migliore. Dovresti inviare in Laconia trecento navi della tua flotta. A ridosso della Laconia c'è un'isola, chiamata Citera che, secondo Chilone, un gran sapiente del mio paese, sarebbe stato meglio per gli Spartani se invece di emergere dalle acque vi fosse sprofondata; si aspettava infatti da un giorno all'altro, che da Citera derivasse qualcosa di simile a quanto sto per esporti: non prevedeva certo la tua spedizione, ma paventava ugualmente qualunque spedizione armata. Muovendo da questa isola le tue navi incutano paura agli Spartani. Con la guerra alle porte di casa, non saranno in grado di venire in aiuto agli altri, quando il resto della Grecia cadrà nelle mani delle truppe di terra; e una volta ridotto in schiavitù il resto della Grecia, lo stato spartano, rimasto solo, è debole. Se non farai così, ecco cosa devi immaginarti: nel Peloponneso c'è uno stretto istmo; in quel punto, dopo che tutti i Peloponnesiaci si saranno confederati contro di te, attenditi battaglie più dure di quelle già sostenute. Se invece farai quanto ho detto, l'istmo e le città si arrenderanno a te".

236) Dopo Demarato prese la parola Achemene, fratello di Serse e comandante della flotta, che assisteva per caso al colloquio e temeva che Serse si lasciasse convincere ad agire così: "Mio re, vedo che accetti le parole di un uomo che è geloso della tua prosperità, se addirittura non tradisce la tua causa; ed è proprio di sentimenti del genere che si compiacciono i Greci: invidiano la buona sorte e detestano la superiorità altrui. Se nelle attuali circostanze, ora che quattrocento navi sono naufragate, tu ne invierai altre trecento intorno al Peloponneso, i tuoi nemici saranno in grado di misurarsi con te. Se invece la nostra flotta rimane unita, troveranno ben difficile attaccarla e non potranno assolutamente tenerci testa. Avanzando di concerto, la flotta intera e le truppe di terra si sosterranno a vicenda. Se invece le dividerai, né tu sarai utile alle navi né le navi a te. Regola bene i tuoi affari, attieniti a questo criterio: non curarti delle mosse dei tuoi nemici, dove porteranno la guerra, che cosa faranno, quanti siano. Sono capaci da soli di pensare a se stessi, come lo siamo noi per quel che ci riguarda. Se affronteranno i Persiani, gli Spartani non rimedieranno davvero all'attuale disastro".

237) Ecco come gli rispose Serse: "Achemene, mi pare che tu parli bene e farò così. Sì, Demarato propone quanto lui crede sia meglio per me, ma il suo consiglio è peggiore del tuo. Tuttavia non sono d'accordo con te su una cosa, che non sia favorevole alla mia causa: lo giudico da quanto mi ha detto prima e dalla realtà; è vero, un cittadino invidia le fortune di un altro e gli è ostile col silenzio: richiesto di un parere non gli darebbe i consigli che ritiene migliori; a meno di non essere un uomo di altissima virtù, e ce ne sono ben pochi. Però un ospite è molto ben disposto verso un ospite in buona fortuna: richiesto di un parere gli darebbe il migliore. Perciò ordino che per il futuro ci si astenga dall'offendere Demarato, che è ospite mio".

238) Detto ciò Serse passò in mezzo ai cadaveri; al corpo di Leonida, avendo udito che era re e comandante degli Spartani, ordinò di tagliare la testa e di piantarla su un palo. Mi pare chiaro da molti altri elementi e da questo in particolare, che Serse si era infuriato contro Leonida, quando era vivo, più che contro chiunque altro; altrimenti nei confronti di questo cadavere non avrebbe travalicato le norme: sì perché tra tutte le popolazioni a me note sono proprio i Persiani a onorare di più i valorosi in guerra. L'ordine venne eseguito da chi ne era stato incaricato.

239) Ma torno ora al punto precedente della mia esposizione che era rimasto sospeso. Gli Spartani furono i primi a sapere che il re stava per marciare contro la Grecia (per questo avevano inviato delegati all'oracolo di Delfi, dove ricevettero il responso da me più sopra riferito) e vennero a saperlo in maniera sorprendente. Demarato, figlio di Aristone, per quanto io credo (e la logica mi soccorre), non era ben disposto verso gli Spartani, nel suo esilio fra i Medi; a questo punto si può cercare di indovinare se quel che fece lo fece per benevolenza o invece con gioia maligna. Quando Serse ebbe deciso di muovere contro la Grecia, Demarato che si trovava a Susa e ne venne a conoscenza, volle informarne gli Spartani. Non aveva altri sistemi per avvisarli, giacché correva il rischio di essere scoperto, e quindi escogitò questo sotterfugio: prese una tavoletta doppia, ne raschiò via la cera e poi incise sul legno della tavoletta la decisione del re; dopodiché riversò della cera sullo scritto, affinché la tavoletta, non contenendo nulla, non procurasse noie a chi la portava da parte delle guardie delle strade. Quando essa giunse a Sparta, gli Spartani non riuscivano a raccapezzarsi finché un suggerimento non venne da Gorgo, figlia di Cleomene e moglie di Leonida, che ci era arrivata da sola: li esortò a raschiare via la cera e avrebbero trovato il messaggio inciso nel legno. Seguirono il suo consiglio, trovarono il messaggio, lo lessero; poi lo divulgarono fra gli altri Greci. Così si narra che sia accaduto.

                                                                                                      

 

           

 

  

 

 

 

 

 

 

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