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DARIO NELLA SCIZIA FONDAZIONE DI CIRENE prima parte 1)Dopo la presa di Babilonia Dario mosse personalmente contro gli Sciti.
L'Asia fiorente di uomini e le grandi ricchezze che gli affluivano
suscitarono in Dario il desiderio di vendicarsi degli Sciti, in quanto
per primi, attaccato il paese dei Medi e sconfitto in battaglia chi ad
essi si opponeva, avevano dato inizio all'ingiustizia. In effetti, come
già prima ho ricordato, gli Sciti dominarono per ventotto anni la parte
settentrionale dell'Asia: gettatisi all'inseguimento dei Cimmeri,
irruppero nell'Asia mettendo fine al dominio dei Medi, che ne erano
signori prima dell'arrivo degli Sciti. Quando poi gli Sciti, rimasti per
ventotto anni fuori della patria, tornarono, così tanto tempo dopo, a
casa loro, li attendeva un'impresa ardua quanto la conquista della
Media: trovarono ad accoglierli un esercito non indifferente. Era
accaduto che le loro mogli, prolungandosi l'assenza dei mariti, s'erano
messe con gli schiavi. 2) Gli schiavi, gli Sciti li accecano tutti per la preparazione del latte che
bevono; essa avviene così: prendono dei tubi ossei, somigliantissimi a
flauti, li introducono nei genitali delle cavalle e vi soffiano dentro
con la bocca, e mentre alcuni soffiano altri mungono. Procedono in tal
modo, dicono, perché le vene della cavalla, grazie al soffio, si
inturgidiscono e le poppe si abbassano. Quando hanno munto il latte, lo
versano in panciuti vasi di legno e lo fanno agitare dai ciechi,
disposti tutto intorno ai vasi: scremano la parte superiore e la
considerano più pregiata, mentre apprezzano meno la parte che resta in
basso. Per questo gli Sciti accecano chiunque catturino; in effetti non
sono agricoltori, ma nomadi. 3) Da questi loro schiavi, dunque, e dalle loro mogli, nacque una generazione
di giovani, i quali, appresa la propria origine, si opposero agli Sciti
che rimpatriavano dalla Media. Per prima cosa cercarono di isolare il
paese scavando un ampio fossato che si estendeva dai monti del Tauro
fino alla palude Meotide, là dove è più ampia; poi, schierandosi di
fronte agli Sciti che tentavano di fare irruzione, ingaggiavano
battaglia. Si scontrarono varie volte e gli Sciti non riuscivano a
prevalere con le armi; allora uno di loro disse: "Che stiamo
facendo, amici! Se combattiamo contro i nostri schiavi, assottigliamo le
nostre file facendoci uccidere, e uccidendo loro diminuiamo il numero
dei nostri futuri sudditi. Per me bisogna mettere via lance e archi;
ciascuno deve prendere la frusta del cavallo e spingersi più vicino a
loro; finché ci vedevano con le armi si credevano uguali a noi e di
uguale nascita, ma quando, anziché con le armi, ci vedranno con la
frusta, capiranno che sono nostri schiavi e, riconoscendolo, non
opporranno resistenza". 4) Udito il consiglio, gli Sciti lo misero in pratica; e i loro nemici,
sbalorditi da quanto avveniva, si dimenticarono della battaglia e si
diedero alla fuga. Così gli Sciti dominarono l'Asia e poi, cacciati via
dai Medi, rientrarono, come ho detto, nel loro paese. Ed ecco perché
Dario, volendo vendicarsi, raccolse un esercito contro di loro. 5) A sentire gli Sciti, il loro sarebbe fra tutti il popolo più recente e
avrebbe avuto origine come segue. In quella regione, allora desertica,
nacque un primo uomo, che si chiamava Targitao; padre e madre di questo
Targitao, dicono (per conto mio non è credibile, ma insomma così
dicono), sarebbero stati Zeus e la figlia del fiume Boristene. Nato
dunque da tali genitori, Targitao ebbe tre figli, Lipossai, Arpossai e
Colassai, il più giovane dei tre. Durante il loro regno sul suolo della
Scizia caddero dal cielo degli oggetti d'oro, un aratro, col suo giogo,
un'ascia bipenne e una coppa. Il più vecchio dei fratelli li vide per
primo e subito si avvicinò per afferrarli; ma mentre si avvicinava
l'oro divenne infuocato. Egli allora si ritrasse e si fece sotto il
secondo fratello, ma l'oro di nuovo reagì come prima. L'oro
arroventandosi si difese dai primi due, ma al sopraggiungere del terzo
fratello, il più giovane, smise di essere incandescente, e lui poté
portarselo a casa. Al che i due fratelli maggiori di comune accordo
cedettero al più giovane l'intero regno. 6) Da Lipossai sarebbe nata la tribù scita detta degli Aucati, da Arpossai,
il fratello di mezzo, i Catìari e i Traspi, dal più giovane la stirpe
dei re, i Paralati; tutti insieme si chiamano Scoloti, dal nome del re,
ma i Greci li chiamarono Sciti. 7) Così gli Sciti narrano la propria origine; quanto agli anni trascorsi
complessivamente dal primo re Targitao sino all'invasione di Dario,
dicono che siano mille e non uno di più. I re custodiscono l'oro sacro
con la massima cura e ogni anno lo venerano con grandi sacrifici
propiziatori. Se durante la festa uno dei custodi dell'oro si addormenta
all'aperto, costui, dicono gli Sciti, non arriva alla fine dell'anno;
perciò gli regalano tanta terra quanta riesca a percorrerne in un
giorno a cavallo. Essendo il paese sterminato, Colassai lo spartì in
tre regni fra i propri figli, assegnando un territorio maggiore al regno
in cui viene custodito l'oro. I territori situati verso nord oltre le
estreme regioni abitate della Scizia non si possono né vedere né
attraversare più di tanto, si dice, perché vi cadono piume: il suolo e
l'aria ne sarebbero pieni, e le piume appunto impedirebbero la visuale. 8) Questo raccontano gli Sciti su di sé e sui territori settentrionali; ecco
invece cosa narrano i Greci residenti sul Ponto. Eracle, spingendo i
buoi di Gerione, sarebbe giunto nella terra ora occupata dagli Sciti,
allora desertica. Gerione risiedeva lontano dal Ponto, abitava
nell'isola detta dai Greci Eritia, al di là delle colonne d'Eracle, di
fronte a Cadice, nell'Oceano. L'Oceano, dicono i Greci, ha origine
nell'estremo oriente dove sorge il sole e scorre tutto intorno alla
terra (così dicono, ma non sanno dimostrarlo concretamente). Da là
giunse Eracle nel paese detto Scizia: sorpreso dall'inverno e dal gelo,
si avvolse nella sua pelle di leone e si addormentò; e nel frattempo,
per sorte divina, le cavalle, quelle staccate dal suo carro, sparirono
mentre pascolavano. 9) Appena sveglio, Eracle si mise a cercarle, percorrendo in lungo e in largo
tutto il paese, finché giunse nella regione cosiddetta di Ilea. Qui, in
una grotta, trovò una creatura dalla duplice natura, mezza donna e
mezza serpente, donna dai glutei in su e rettile in giù. Eracle
guardandola pieno di stupore le chiese se avesse visto in giro, da
qualche parte, delle cavalle. Gli rispose che erano in mano sua, le
cavalle, e che non gliele avrebbe ridate se prima non faceva l'amore con
lei: un prezzo che Eracle accettò. Ma lei, poi, differiva la
restituzione delle cavalle desiderando starsene con Eracle il più a
lungo possibile, mentre lui voleva riprenderle e andarsene; infine lei
gliele rese e disse: "Io ti ho salvato queste cavalle, giunte fino
a qui, e tu mi hai dato il compenso: da te ho concepito tre figli.
Spetta a te ora indicarmi come agire una volta che siano adulti: li
tengo qui (perché io sono la regina di questa regione) o li mando da
te?". Così gli chiedeva ed Eracle le rispose: "Quando ti
accorgi che i ragazzi sono divenuti ormai uomini, regolati come ti dico
e non sbaglierai: se ne vedi uno capace di tendere quest'arco così e di
legarsi la cintura come faccio io, insedialo in questo paese: chi invece
non riesce a compiere le azioni che dico, mandalo via. Agendo così tu
stessa ne sarai felice e avrai realizzato il compito che ti
affido". 10) Eracle dunque, dopo aver teso uno degli archi (fino ad allora ne portava
due) e mostrato come si doveva allacciare la cintura, consegnò alla
donna l'arco e la cintura, che portava una coppa d'oro allacciata alla
fibbia; dopodiché si allontanò. La donna, quando i suoi figli
divennero adulti, impose loro i nomi di Agatirso al primo, Gelono al
secondo, Scita al più giovane; poi, memore delle raccomandazioni di
Eracle, eseguì quanto lui le aveva prescritto. E così due dei suoi
figli, Agatirso e Gelono, non risultando capaci di superare la prova
stabilita, se ne andarono via dal paese, scacciati dalla madre; il più
giovane invece, Scita, avendola portata a compimento, vi rimase. Da
Scita figlio di Eracle, raccontano, discesero tutti i re succedutisi sul
trono di Scizia, e a quella antica coppa risale l'attuale uso scita di
portare una coppa appesa alla cintura. Questo dunque aveva compiuto per
Scita sua madre. Così raccontano i Greci residenti sul Ponto. 11) Esiste ancora un'altra versione, a cui mi sento molto incline, che narra
così. Gli Sciti nomadi che vivevano in Asia, premuti in guerra dai
Massageti, attraversarono il fiume Arasse e si trasferirono nel
territorio dei Cimmeri (e infatti il paese attualmente occupato dagli
Sciti si dice appartenesse un tempo ai Cimmeri). Vedendo giungere gli
Sciti, i Cimmeri si consultarono sul da farsi, visto che in arrivo si
profilava un esercito immenso: si contrapposero così due pareri,
vigorosamente sostenuti entrambi, più forte però quello dei re. Il
popolo riteneva che fosse il caso di ritirarsi e di non rischiare contro
una massa del genere, i re invece volevano battersi fino all'ultimo
contro gli invasori per la loro terra. Nessuno era disposto a cedere, né
il popolo ai sovrani né i sovrani al popolo; infine i sudditi decisero
di andarsene, abbandonando il paese agli invasori senza combattere, i re
invece preferirono giacere uccisi in patria che fuggire insieme con gli
altri: pensavano ai privilegi di cui avevano sempre goduto e ai mali che
prevedibilmente avrebbero patito in esilio, lontano dalla patria. Presa
questa risoluzione, i re si divisero dunque in due gruppi ugualmente
numerosi e si affrontarono. Il popolo dei Cimmeri seppellì poi tutti i
caduti, periti l'uno per mano dell'altro, presso il fiume Tira (il
tumulo è tutt'oggi visibile); e dopo averli seppelliti in tal modo, i
Cimmeri uscirono dal paese. Gli Sciti sopraggiunsero e conquistarono una
regione ormai deserta. 12) E ancora oggi in Scizia ci sono le Mura Cimmerie e il varco Cimmerio, una
regione si chiama Cimmeria, e c'è il cosiddetto Bosforo Cimmerio. Ed è
chiaro che i Cimmeri, fuggendo in Asia davanti agli Sciti, colonizzarono
la penisoletta su cui ora sorge la greca città di Sinope. Ed è anche
chiaro che gli Sciti, nell'inseguirli, penetrarono nel paese dei Medi,
sbagliando direzione. In effetti i Cimmeri in fuga si tennero
costantemente lungo la costa, mentre gli Sciti, passando sulla sinistra
del Caucaso, li inseguirono fin dentro il paese dei Medi, che invasero:
avevano deviato piegando verso l'interno. E questa è la terza versione:
la raccontano tanto i Greci come i barbari. 13) Aristea, un uomo di Proconneso, figlio di Caistrobio, scrisse in un suo
poema epico di essere giunto, posseduto da Febo, fino agli Issedoni; a
nord degli Issedoni, disse, abitano gli Arimaspi che hanno un occhio
solo, più in là dei quali vivono i grifoni custodi dell'oro; oltre i
grifoni e fino al mare gli Iperborei. Questi popoli, tranne gli
Iperborei, avrebbero premuto sui loro confinanti, a partire dagli
Arimaspi: gli Issedoni furono spinti fuori del loro paese dagli Arimaspi,
gli Sciti dagli Issedoni, e i Cimmeri, stanziati lungo le coste del mare
meridionale, abbandonarono la loro terra scacciati dagli Sciti. Insomma,
neppure Aristea è d'accordo con gli Sciti sulla storia di questa
regione. 14) Di dov'era nativo Aristea, l'autore di queste notizie, l'ho detto; ora
invece riferirò quanto su di lui udivo raccontare a Proconneso e a
Cizico. Narrano infatti che Aristea, il quale per nobiltà di natali non
era inferiore a nessuno nella sua città, entrò un giorno in una
lavanderia di Proconneso e vi morì; il lavandaio chiuse il negozio e si
avviò per avvertire i parenti del defunto. Si sparse per la città la
voce che Aristea era morto, ma giunse a contraddirla un uomo di Cizico,
proveniente da Artace, il quale sosteneva di averlo incontrato che si
dirigeva a Cizico e di aver chiacchierato con lui. E mentre costui
ribadiva con ostinazione il suo discorso, i parenti del defunto già
erano sulla porta della lavanderia con il necessario per rimuovere il
cadavere. Aprirono la porta della stanza, ma di Aristea non c'era
traccia, né vivo né morto. Sei anni dopo riapparve a Proconneso e vi
compose il poema ora intitolato dai Greci Canti arimaspi: dopo averlo
composto sparì una seconda volta. 15) Così si racconta in queste due città, ecco invece cosa so essere capitato
agli abitanti di Metaponto in Italia, 240 anni dopo la seconda scomparsa
di Aristea, secondo quanto ho scoperto con le mie ricerche a Metaponto e
a Proconneso. I Metapontini affermano che Aristea in persona apparve nel
loro paese, ordinò di edificare un altare ad Apollo e di erigergli
accanto una statua con la scritta "Aristea di Proconneso";
spiegò che essi erano gli unici Italioti presso i quali fosse venuto
Apollo e che lui stesso lo aveva seguito: ora era Aristea, allora,
quando accompagnava il dio, era un corvo. Detto ciò sarebbe scomparso.
I Metapontini, a quanto asseriscono, inviarono una delegazione a Delfi
per interrogare il dio sul significato di quell'apparizione, e la Pizia
li avrebbe esortati a obbedire al fantasma, perché obbedendo si
sarebbero trovati meglio. Essi accettarono il responso ed eseguirono
quanto prescritto. E oggi proprio accanto al monumento di Apollo si erge
una statua intitolata ad Aristea, circondata da piante di alloro; il
monumento di Apollo si trova nella piazza. E questo basti sul conto di
Aristea. 16) Quanto al paese da cui è partito il mio discorso, nessuno sa con certezza
cosa vi sia al suo nord: in effetti non ho mai potuto raccogliere
notizie da qualcuno che si dichiarasse testimone oculare di tali
contrade. E nemmeno quell'Aristea da me ricordato poco fa, neppure lui
affermò nel suo poema di essere andato oltre gli Issedoni: delle
regioni ulteriori parlava per sentito dire, e indicava negli Issedoni le
sue fonti. Ebbene, quanto noi con certezza siamo stati in grado di
apprendere grazie alle nostre fonti, spingendoci avanti il più
possibile, ora qui sarà esposto. 17) Muovendo dal porto dei Boristeniti (che si trova giusto a metà dell'intera
costa scitica), muovendo da qui si incontrano per primi i Callippidi,
che sono Greco-Sciti, e più a nord un altro popolo, i così chiamati
Alizoni. Alizoni e Callippidi praticano le stesse usanze degli Sciti, ma
seminano grano, cipolle, aglio, lenticchie e miglio, e se ne cibano.
Oltre gli Alizoni vivono gli Sciti aratori, che seminano il grano pure
loro, ma non per cibarsene, bensì per venderlo; oltre gli Sciti aratori
si trovano i Neuri; a nord dei Neuri, per quanto ne sappiamo, non ci
vive uomo. 18) Queste popolazioni sono stanziate lungo il fiume Ipani a ovest del
Boristene. Attraversato il Boristene, la prima regione che si incontra,
partendo dal mare, è l'Ilea; oltre l'Ilea, nell'interno, dimorano gli
Sciti agricoltori, quelli che i Greci residenti sul fiume Ipani chiamano
Boristeniti (mentre a se stessi danno il nome di Olbiopoliti). Questi
Sciti agricoltori abitano un territorio che si estende verso est per tre
giorni di cammino fino al fiume chiamato Panticape e verso nord per
undici giorni di navigazione a risalire il Boristene. A settentrione di
questi Sciti il territorio è per ampio tratto disabitato; poi dopo il
deserto vivono gli Androfagi, una stirpe a sé, estranea al gruppo degli
Sciti. Ancora più a nord ormai è deserto pieno e, per quanto ne
sappiamo, non vi è stanziato nessun popolo. 19) Proseguendo, a est degli Sciti agricoltori, oltre il Panticape, si è ormai
nel paese degli Sciti nomadi che non arano e non seminano un bel niente.
L'intera Scizia a eccezione dell'Ilea è spoglia di alberi. I nomadi
occupano un territorio che si estende per quattordici giorni di viaggio
in direzione est fino al fiume Gerro. 20) Al di là del Gerro ci sono i territori cosiddetti "regi": vi
abitano gli Sciti più nobili e più numerosi, che giudicano come loro
schiavi gli altri Sciti; essi si spingono verso sud fino alla regione
del Tauro, verso est fino al fosso scavato a suo tempo dai figli degli
schiavi ciechi e fino al porto cosiddetto di Cremni, sulla palude
Meotide; parte di loro arrivano fino al fiume Tanai. A nord degli Sciti
reali vivono i Melancleni; oltre i Melancleni ci sono paludi e la zona,
per quanto ne sappiamo, è affatto priva di uomini. 21) Passato il Tanai, non è più Scizia: la prima delle porzioni territoriali
abitate appartiene ai Sauromati, stanziati a partire dal recesso della
palude Meotide e in direzione nord per quindici giorni di viaggio: una
regione del tutto spoglia di alberi sia coltivati sia selvatici. Al di
sopra dei Sauromati la seconda porzione di territorio è dei Budini, che
abitano una terra ricoperta interamente di alberi d'ogni specie. 22) Oltre i Budini, verso nord, dapprima c'è un deserto, per sette giorni di
viaggio; dopo la zona desertica, piegando alquanto verso oriente, ci
sono i Tissageti, popolazione numerosa ed etnicamente distinta; vivono
di caccia. Di seguito, negli stessi territori, sono stanziati i così
chiamati Iurci, che vivono anch'essi di caccia, nel modo seguente. Si
appostano in agguato sopra gli alberi (che sono numerosissimi in tutta
la regione): ciascun cacciatore ha pronto un cavallo, a cui ha insegnato
ad acquattarsi sul ventre per dare meno nell'occhio, e un cane; quando
avvista la preda dall'alto dell'albero, le scaglia addosso una freccia,
poi balza giù sul cavallo e la insegue, mentre il cane la bracca. Oltre
gli Iurci, verso occidente, vivono altri Sciti, che si ribellarono agli
Sciti regi e vennero così a stabilirsi in questa regione. 23) Fino a questi Sciti tutta la regione fin qui descritta è pianeggiante e
fertile: più avanti si fa pietrosa e aspra. Superata anche la zona
pietrosa, un'ampia regione ai piedi di alte montagne è abitata da
uomini che, si dice, sono tutti calvi dalla nascita, uomini e donne
indistintamente, hanno il naso schiacciato e il mento largo, parlano una
lingua tutta propria ma si vestono come gli Sciti, e vivono dei frutti
degli alberi. Pontico si chiama l'albero del cui prodotto si cibano, ha
le dimensioni di una pianta di fico, più o meno, e produce un frutto
grande come una fava e che ha il nocciolo; quando è maturo lo filtrano
attraverso panni e ne cola un succo denso e scuro, che chiamano
"aschi"; se lo sorseggiano e se lo bevono mescolato col latte;
di ciò che resta del frutto spremuto fanno delle schiacciate e se le
mangiano. Animali non ne allevano molti perché non vi sono buoni
pascoli. Ognuno abita sotto una pianta: d'inverno ne avvolge le fronde
in un feltro bianco impermeabile, d'estate ne fa a meno. Nessuno
commette soprusi nei loro confronti, perché sono considerati uomini
sacri, né essi si fabbricano armi da guerra. Sono loro a dirimere le
controversie che sorgono fra i popoli confinanti e d'altra parte ogni
esule che si rifugi presso di loro non subisce torti da nessuno. Si
chiamano Argippei. 24) Fino a tali uomini calvi, dunque, il paese e le genti al di qua sono
ampiamente noti; infatti alcuni Sciti si spingono fino a loro e non è
difficile ricavarne informazioni; come pure si ricavano dai Greci del
porto di Boristene e degli altri empori del Ponto. Gli Sciti che
arrivano sino agli Argippei negoziano in sette lingue per mezzo di
altrettanti interpreti. 25) Se fino a costoro il paese è conosciuto, sui territori a nord degli uomini
calvi nessuno è in grado di riferire con esattezza. La regione è
tagliata fuori da alte montagne invalicabili, che nessuno oltrepassa. Da
parte loro gli uomini calvi raccontano, ma non mi pare credibile, che
sulle montagne abitano uomini con zampe di capra, oltre i quali vivono
altri uomini che dormono per sei mesi consecutivi: ma questo proprio non
lo accetto assolutamente. A est dei calvi si sa con certezza che vivono
gli Issedoni, ma delle regioni più settentrionali, a nord tanto dei
calvi che degli Issedoni, non si sa nulla, se non quanto questi stessi
popoli raccontano. 26) Ecco dunque quanto si narra sulle usanze degli Issedoni. Quando a un uomo
muore il padre, tutti i parenti gli portano animali da allevamento: li
sacrificano, ne tagliano le carni e vi aggiungono anche, tagliato a
pezzi, il cadavere del padre dell'ospite; mescolano assieme tutte le
carni e banchettano. La testa del morto, però, la radono, la puliscono,
la indorano e poi la trattano come una immagine sacra, offrendole
annualmente grandi sacrifici. Il figlio onora il padre così, come i
Greci commemorano i defunti. Inoltre hanno anch'essi fama di essere
giusti: e le donne fra loro godono degli stessi poteri degli uomini. 27) Anche sugli Issedoni, dunque, siamo informati. Più oltre verso nord sono
gli Issedoni a parlare dell'esistenza di uomini muniti di un solo occhio
e di grifi custodi dell'oro: gli Sciti lo riferiscono avendolo udito
dagli Issedoni, e noi, che lo abbiamo appreso dagli Sciti, chiamiamo
quegli uomini, con voce scita, "Arimaspi": in lingua scita àrima
vuol dire "uno" e spu "occhio". 28) Tutta la regione qui menzionata soffre di inverni molto rigidi, e per otto
mesi vi regna un freddo addirittura insopportabile; in tal periodo
versando a terra dell'acqua non produrrai fango: il fango lo formerai
accendendo un fuoco. Si gela il mare e tutto il Bosforo Cimmerio e sul
lastrone di ghiaccio gli Sciti residenti al di qua del fossato si
mettono in marcia e si spingono oltre con i loro carri, verso il paese
dei Sindi. L'inverno si mantiene così per otto mesi; e per i quattro
mesi restanti la temperatura è ancora fredda. È un tipo di inverno
diverso da tutti gli inverni degli altri paesi: non ci sono piogge degne
di nota nella stagione in cui ci se le aspetterebbe, mentre d'estate non
smette mai di piovere; i tuoni, assenti quando altrove si fanno sentire,
sono fittissimi in estate. Un tuono che si produca d'inverno è accolto
con stupore, come un prodigio; lo stesso se si verifica un terremoto,
d'inverno come d'estate, in Scizia è considerato un prodigio. I cavalli
riescono a sopportare un simile inverno, ma i muli non ce la fanno
assolutamente, e neppure gli asini, mentre in altri paesi i cavalli nel
gelo muoiono per assideramento e invece asini e muli resistono. 29) Secondo me è questa la ragione per cui in quel paese la razza di buoi
"senza corna" è, appunto, priva di esse; me ne dà una prova
anche un verso di Omero, dall'Odissea: "... e la Libia, dove presto
agli agnelli spuntano le corna", molto esatto: nei paesi caldi le
corna crescono rapidamente. Invece nei paesi a clima rigido le corna o
crescono poco o non spuntano affatto. 30) Ecco dunque cosa accade lassù per il freddo. Ma io mi meraviglio proprio
(e lo dico perché ormai la mia opera è andata a cercarsele fin
dall'inizio le digressioni), mi meraviglio che in tutta la regione
dell'Elide non possano nascere muli: perché il paese non è freddo né
ci sono altre cause palesi. Gli Elei, dal canto loro, affermano che da
loro non nascono muli per una maledizione. Così quando è il momento di
far accoppiare le cavalle, le portano nei paesi vicini, lì le fanno
montare dagli asini finché si ingravidano, dopodiché se le riportano
indietro. 31) Quanto alle piume di cui l'aria secondo gli Sciti sarebbe piena e che
impedirebbero sia di inoltrarsi nel paese sia di spingere lo sguardo
nell'interno, la mia opinione è la seguente: a nord di queste regioni
nevica in continuazione, un po' meno d'estate che d'inverno ovviamente.
Ora, chi ha già visto da vicino la neve cadere fitta fitta, sa cosa
voglio dire: i fiocchi di neve sono simili a piume. E poiché l'inverno
là è quello che è, le regioni settentrionali di questo continente non
sono abitabili. Credo dunque che gli Sciti e i loro vicini descrivano la
neve come piume per paragone. E questo basti sulle regioni dette le più
remote del mondo. 32) Degli Iperborei non discorrono né gli Sciti né gli altri abitanti di
questo continente, se non gli Issedoni. Ma io credo che anch'essi non
dicano niente, altrimenti ne parlerebbero pure gli Sciti, come parlano
degli uomini con un occhio solo. Si fa menzione degli Iperborei in
Esiodo e anche in Omero, negli Epigoni, ammesso che Omero abbia
effettivamente composto tale poema. 33) Le notizie di gran lunga più sostanziose sul conto degli Iperborei le
forniscono i Deli: essi affermano che offerte sacre, avvolte in paglia
di grano, provenienti dagli Iperborei arrivano nelle mani degli Sciti e
dagli Sciti via via passano di gente in gente fino a giungere nel
lontanissimo occidente, fino all'Adriatico. Da qui vengono inviate verso
sud: i primi Greci a riceverle sono quelli di Dodona, da dove poi
scendono al Golfo Maliaco per essere traghettate in Eubea; di città in
città giungono a Caristo; Andro viene saltata: i Caristi le recapitano
direttamente a Teno, e infine i Teni a Delo. Così dunque arrivano a
Delo le sacre offerte, ma in un primo tempo gli Iperborei mandarono a
portarle due ragazze, di nome, secondo i Deli, Iperoche e Laodice.
Insieme con loro, per proteggerle, gli Iperborei inviarono cinque
concittadini come accompagnatori: oggi si chiamano Perferei e a Delo
godono di grandi privilegi. Ma poiché i delegati non rientrarono in
patria, gli Iperborei, ritenendo grave la possibilità di non più
rivedere le persone di volta in volta inviate, portarono le loro offerte
ai confini, le consegnarono ai popoli limitrofi avvolte in paglia di
grano, pregandoli di farle proseguire ulteriormente. Spedite in tal
modo, narrano, le offerte giungono a Delo. Io so di un sistema di
offerta molto simile in uso fra le donne della Tracia e della Peonia:
quando sacrificano ad Artemide regina, non compiono i riti se non hanno
paglia di grano. 34) Che facciano questo lo so. In onore delle vergini degli Iperborei che
andarono a Delo e vi morirono si recidono i capelli sia le ragazze sia i
ragazzi di Delo: le ragazze si tagliano un ricciolo prima delle nozze,
lo avvolgono intorno a un fuso e lo depongono sopra la tomba (la tomba
si trova all'interno del santuario di Artemide, sulla sinistra, e sopra
vi è cresciuto un olivo); tutti i ragazzi di Delo legano un loro
ricciolo intorno a un ciuffo d'erba e lo depongono anch'essi sulla
tomba. 35) Tali dunque le onoranze che ricevono dagli abitanti di Delo. Sempre i Deli
raccontano che anche Arge e Opi, due vergini iperboree, giunsero a Delo
viaggiando attraverso le stesse genti su menzionate e ben prima di
Iperoche e Laodice. Ma mentre queste ultime vennero a portare a Ilitia
il tributo che gli Iperborei si erano imposto per rendere grazie del
rapido parto, Arge e Opi sarebbero venute insieme con le dee in persona;
e dicono che a esse altre onoranze furono tributate a Delo: per loro
infatti le donne raccolgono denaro invocandone i nomi nel carme composto
per l'occasione da Olene di Licia; dalle donne di Delo le isolane e le
donne ioniche hanno imparato a celebrare negli inni Opi e Arge e a fare
la questua (Olene venne dalla Licia e compose anche gli altri antichi
inni che si cantano a Delo); e quando le cosce delle vittime bruciano
sull'altare, la cenere residua viene utilizzata per essere sparsa sulla
tomba di Opi e di Arge. La tomba si trova nel retro del santuario, verso
est, proprio accanto al cenacolo dei Cei. 36) E questo sia sufficiente sul conto degli Iperborei. Né sto qui a
raccontare la storia di Abari, il quale si dice fosse un Iperboreo, che
avrebbe portato la sua freccia in giro per il mondo senza mai toccare
cibo. Se esistono degli uomini iperboreali allora esistono anche gli
iperaustrali. Rido quando vedo che molti hanno disegnato la mappa della
terra, ma che nessuno ne ha dato una spiegazione ragionevole:
raffigurano un Oceano che scorre intorno alla terra, tonda come se
l'avessero fatta col compasso, e disegnano l'Asia grande come l'Europa.
Ora in poche parole spiegherò io quanto è vasto ciascun continente e
quali contorni presenta. 37) Il territorio dei Persiani si estende fino al mare meridionale, il
cosiddetto Eritreo; sopra di loro verso nord sono stanziati i Medi,
oltre i Medi i Saspiri e al di là dei Saspiri i Colchi sulle rive del
mare settentrionale, dove sfocia il fiume Fasi. Questi quattro popoli
occupano la regione fra i due mari. 38) Da qui, in direzione ovest, si dipartono dall'Asia e si inoltrano nel mare
due penisole, che ora descriverò. La prima si allunga in mare, a nord,
a cominciare dal Fasi lungo il Ponto e l'Ellesponto fino al capo Sigeo
nella Troade, e a sud si protende in mare, questa stessa penisola, dal
golfo di Miriando, adiacente alla Fenicia, fino al promontorio Triopico.
In questa penisola sono stanziati trenta popoli. 39) Tale è la prima penisola; la seconda si estende verso il mare Eritreo a
partire dalla Persia, comprende in successione il territorio persiano,
l'Assiria e l'Arabia; l'Arabia termina, ma solo per convenzione, nel
Golfo Arabico, nel quale Dario fece sfociare un canale proveniente dal
Nilo. Dalla Persia alla Fenicia la regione si presenta pianeggiante e
ampia; dalla Fenicia la penisola si protende nel mare a noi vicino lungo
la Siria Palestina e l'Egitto, dove termina; tre soli popoli vivono in
questa regione. 40) Ecco dunque i territori asiatici occidentali a partire dalla Persia; i
paesi oltre la Persia, la Media, la Saspiria e la Colchide, verso est,
verso i primi raggi del sole, corrono da una parte lungo il mare Eritreo
e dall'altra, a nord, lungo il Mar Caspio e il fiume Arasse, che scorre
verso il levarsi del sole. L'Asia è abitata fino all'India: da qui in
poi, verso oriente, nessuno ci vive e nessuno sa dire come sia. 41) Tali sono la forma e l'estensione dell'Asia. La Libia appartiene alla
seconda penisola (la Libia infatti succede immediatamente all'Egitto);
all'altezza dell'Egitto tale penisola si fa ben stretta. Dal nostro mare
al mare Eritreo ci sono centomila orgie, vale a dire un migliaio di
stadi; dopo tale istmo la penisola, che ora si chiama Libia, torna ad
essere assai ampia. 42) Mi meraviglio dunque di quanti separano con tanto di confini Libia, Asia ed
Europa. Le differenze non sono da poco: in lunghezza l'Europa si
sviluppa lungo Asia e Libia insieme, in larghezza non mi pare neppure
paragonabile. La Libia in effetti si rivela essere interamente
circondata dal mare, fuorché nel tratto di confine con Asia. Per quanto
ne sappiamo il primo ad averlo dimostrato fu il re d'Egitto Neco:
interrotto lo scavo del canale che dal Nilo porta al Golfo Arabico, egli
inviò dei Fenici su delle navi con l'incarico di attraversare le
Colonne d'Eracle sulla via del ritorno, fino a giungere nel mare
settentrionale e così in Egitto. I Fenici, pertanto, partiti dal Mare
Eritreo, navigavano nel mare meridionale; ogni volta che veniva
l'autunno, approdavano, in qualunque punto della Libia fossero giunti,
seminavano e aspettavano il tempo della mietitura. Dopo aver raccolto il
grano, ripartivano, cosicché al terzo anno dopo due trascorsi in
viaggio doppiarono le Colonne d'Eracle e giunsero in Egitto. E
raccontarono anche particolari attendibili per qualcun altro ma non per
me, per esempio che nel circumnavigare la Libia si erano trovati il sole
sulla destra. 43) Così si riconobbe la prima volta com'è la Libia; poi sono i Cartaginesi a
dirlo, in quanto l'Achemenide Sataspe, figlio di Teaspe, non circumnavigò
la Libia, benché fosse stato inviato con tale compito: ebbe paura della
lunghezza della navigazione e della solitudine e tornò indietro, senza
portare a termine la prova che sua madre gli aveva imposto. Sataspe
aveva violentato una ragazza, figlia di Zopiro figlio di Megabisso;
quando poi per la sua colpa stava per venire impalato per ordine di re
Serse, sua madre, sorella di Dario, intercedette per lui, affermando che
gli avrebbe imposto una punizione ancora maggiore: lo avrebbe costretto
a navigare intorno alla Libia fino a tornare, ultimato il giro, nel
Golfo Arabico. A queste condizioni Serse si dichiarò d'accordo, sicché
Sataspe venne in Egitto, prese con sé navi e marinai egiziani e salpò
alla volta delle Colonne d'Eracle; le varcò, doppiò il capo estremo
della Libia, che si chiama Solunte, e diresse la rotta verso sud,
percorrendo in molti mesi un lungo tratto di mare; ma gli restava pur
sempre il tratto maggiore, voltò la prua e se ne tornò in Egitto. Da
qui si recò presso re Serse e gli raccontò che nel punto più lontano
raggiunto avevano costeggiato un paese abitato da piccoli uomini vestiti
con foglie di palma, i quali, tutte le volte che accostavano a riva,
fuggivano verso le montagne abbandonando i loro villaggi; essi vi erano
entrati senza danneggiarli, limitandosi a catturarvi qualche animale.
Per giustificare il mancato periplo della Libia spiegò che
l'imbarcazione non era più in grado di proseguire, ma si era bloccata.
Serse non riconobbe come vere le sue parole e lo fece impalare,
eseguendo l'antica sentenza, perché non aveva comunque compiuto la
prova stabilita. Un eunuco di questo Sataspe scappò via a Samo appena
apprese la morte del padrone; si portò via grandi ricchezze che poi
finirono nelle mani di un uomo di Samo: io ne conosco il nome, ma
preferisco non menzionarlo. 44) La maggior parte dell'Asia fu esplorata all'epoca di Dario, il quale,
desiderando sapere dove andasse a sfociare in mare il fiume Indo, che è
uno dei due soli fiumi al mondo popolati da coccodrilli, inviò su navi
persone di cui si fidava che gli avrebbero riferito la verità, fra le
quali Scilace di Carianda. Essi salparono dalla città di Caspatiro e
dalla terra dei Patti navigando sul fiume in direzione est, verso il
levar del sole, fino al mare; per mare poi puntarono verso occidente e
dopo ventinove mesi giunsero nella stessa regione da cui il re egiziano
aveva spedito a circumnavigare la Libia i Fenici di cui ho già detto.
Dopo il loro periplo, Dario sottomise gli Indiani e cominciò a servirsi
di questo mare. E così si è accertato che l'Asia, a eccezione delle
regioni più orientali, è per il resto simile alla Libia. 45) L'Europa, invece, è rimasta evidentemente sconosciuta a tutti: si ignora
se a est e a nord sia circondata dal mare; si sa però la sua lunghezza,
che è pari a quella degli altri due continenti insieme. Non riesco a
comprendere perché per una terra sola ci siano tre nomi diversi,
derivati da donne, e perché le furono imposti come confini i fiumi Nilo
d'Egitto e Fasi di Colchide (altri indicano il Tanai della Meotide e il
guado dei Cimmeri); né sono riuscito a sapere chi abbia fissato questi
confini e da dove ricavò i nomi. Molti Greci affermano che la Libia è
così chiamata dal nome di una donna del luogo; a sua volta Asia sarebbe
stato il nome della moglie di Prometeo. L'appellativo Asia per altro se
lo rivendicano i Lidi sostenendo che deriva da Asio figlio di Coti
figlio di Mane, e non dall'Asia di Prometeo; da questo Asio avrebbe
preso nome anche la tribù Asia, a Sardi. Quanto all'Europa, come
nessuno sa se è circondata dal mare, così nessuno sa né da dove abbia
preso il suo nome né chi sia stato a imporglielo, a meno di sostenere
che lo ricavò da Europa di Tiro; prima dunque non avrebbe avuto nome,
come gli altri continenti. Ma Europa sicuramente era di origine asiatica
e non giunse mai nel nostro continente, quello ora detto Europa dai
Greci: si limitò a passare dalla Fenicia a Creta, e da Creta in Licia.
E qui si arresti il mio discorso: noi ci serviremo dei nomi
tradizionali. 46) Il Ponto Eusino, verso cui Dario muoveva le sue truppe, è la regione che
presenta, fra tutte, le popolazioni più ignoranti, escludendo gli Sciti:
in effetti nell'ambito del Ponto non sapremmo segnalare per sapienza
nessun popolo, se non gli Sciti, né conosciamo alcun uomo di dottrina,
se non Anacarsi. La sola ottima trovata, in campo umano, la più astuta
a nostra conoscenza, è dovuta alla stirpe degli Sciti; nient'altro
suscita la mia ammirazione. La grandissima trovata è che nessuno, se li
assale, può più sfuggire loro e nessuno è in grado di sorprenderli,
se non vogliono farsi trovare: essi non si costruiscono né mura né
città e le case se le trascinano dietro, tirano con l'arco da cavallo,
non vivono di agricoltura ma di allevamento, dimorano su carri; come
potrebbero non essere invincibili, inattaccabili? E questo l'hanno
ottenuto grazie al terreno favorevole e alla presenza di fiumi che si
rivelano loro alleati; 47) la regione infatti è pianeggiante, erbosa e ricca di acqua, attraversata
da fiumi che sono poco meno numerosi dei canali dell'Egitto. Ora
menzionerò i fiumi più rinomati e navigabili dal mare verso l'interno:
l'Istro, con le sue cinque bocche, il Tira, l'Ipani, il Boristene, il
Panticape, l'Ipaciri, il Gerro e il Tanai; ed ecco come si presenta il
loro corso. 48) L'Istro, il maggiore dei fiumi che conosciamo, ha sempre la stessa portata,
d'estate come d'inverno; e scorrendo per primo da occidente tra i fiumi
della Scizia è anche il più imponente, perché anche altri corsi
d'acqua si versano in lui. Di questi fiumi, dunque, che lo ingrossano,
cinque passano attraverso la Scizia: gli Sciti li chiamano Porata (ma i
Greci Pireto), Tiaranto, Araro, Napari e Ordesso. Il primo da me
nominato, il Pireto, è grande e mescola le sue acque all'Istro verso
oriente, il secondo, il Tiaranto, più verso occidente ed è più
piccolo; l'Araro, il Napari e l'Ordesso si gettano nell'Istro scorrendo
in mezzo agli altri due. Questi fiumi lo ingrossano e sono fiumi della
Scizia, il Mari invece sfocia nell'Istro provenendo dal paese degli
Agatirsi. 49) Dalle vette dell'Emo scendono in direzione nord altri tre affluenti dell'Istro,
e cioè l'Atlante, l'Aura e il Tibisi; attraverso la Tracia e i Traci
Crobizi scorrono l'Atri, il Noe e l'Artane e si immettono nell'Istro.
Dal paese dei Peoni e dal monte Rodope il fiume Scio si getta nell'Istro
dividendo a metà il monte Emo. Dal paese degli Illiri scende verso nord
il fiume Angro che irrompe nella Pianura Triballica e nel fiume Brongo,
e il Brongo nell'Istro: così l'Istro riceve entrambi questi due
notevoli corsi d'acqua. Dalla regione a nord degli Umbri si gettano
nell'Istro procedendo anch'essi verso settentrione i fiumi Carpi e Alpi.
L'Istro in effetti attraversa tutta l'Europa a cominciare dal paese dei
Celti, che sono gli ultimi abitanti dell'Europa verso occidente prima
dei Cineti; scorrendo attraverso l'Europa, l'Istro va a finire nella
pianura della Scizia. 50) In tal modo, cioè col concorso degli affluenti nominati e di molti altri,
l'Istro diventa il più grande dei fiumi, giacché, a confrontare le
singole portate d'acqua, al Nilo spetta il primato di volume: nel Nilo
nessun fiume confluisce, nessun corso d'acqua vi sfocia e contribuisce a
ingrossarlo. L'Istro ha sempre identica portata, d'estate e d'inverno, e
la ragione a mio parere è la seguente: d'inverno è come è, un po'
maggiore di quanto comporta la sua natura; in effetti d'inverno queste
regioni sono bagnate ben poco dalla pioggia, per lo più si coprono di
neve. D'estate la neve caduta nell'inverno, copiosissima, si scioglie e
affluisce da ogni parte nell'Istro; lo ingrossa, dunque, la neve, ma
anche continue e violente piogge; perché d'estate piove. Il sole fa
evaporare verso di sé tanta più acqua d'estate che in inverno, quanto
maggiori d'estate rispetto all'inverno sono le acque che si mescolano
all'Istro. I due contrari fenomeni si compensano a vicenda, e l'Istro
appare sempre uguale a se stesso. 51) L'Istro è solo uno dei fiumi della Scizia; dopo l'Istro c'è il Tira,
proveniente dalle regioni settentrionali: ha origine da un grande lago
che segna il confine fra la Scizia e la terra dei Neuri. Alla sua foce
sorge un insediamento di Greci, i cosiddetti Tiriti. 52) L'Ipani, terzo fiume, viene dalla Scizia, da un grande lago sulle cui rive
vivono bianchi cavalli selvaggi; questo lago si chiama a buon diritto
Madre dell'Ipani. Dal lago e per cinque giorni di navigazione l'Ipani
scorre poco profondo e la sua acqua è dolce, ma da lì, e per quattro
giorni verso la foce, l'acqua si fa terribilmente amara: vi confluisce
infatti un ruscello amaro, ma così amaro che, pur essendo piccolissimo,
rovina tutto l'Ipani, che è un fiume grande come pochi. La sorgente si
trova al confine fra gli Sciti aratori e gli Alizoni. Il nome della
sorgente e della località da cui scaturisce è Esampeo in lingua scita
e le Sacre Vie in lingua greca. All'altezza degli Alizoni il Tira e l'Ipani
si accostano, oltre divergono e scorrono ampiamente distanziati. 53) Il quarto fiume è il Boristene, il maggiore fra questi dopo l'Istro e il
più utile, a nostro giudizio, non solo fra i fiumi della Scizia, ma in
assoluto, secondo solo al Nilo dell'Egitto; al Nilo in effetti non si può
paragonare alcun fiume, ma dei restanti il Boristene è il più utile:
offre al bestiame pascoli bellissimi e assai curati, pesci
particolarmente buoni in gran quantità, ha un'acqua gradevolissima a
bersi, scorre puro in mezzo a corsi d'acqua limacciosi; sulle sue rive
le messi sono splendide e dove il terreno non è coltivato cresce
un'erba foltissima. Alla sua foce si cristallizzano spontaneamente
mucchi di sale senza fine, fornisce pesci enormi privi di lische, adatti
alla conservazione sotto sale, che si chiamano "storioni", e
molte altre autentiche meraviglie ittiche. Fino al paese di Gerro,
distante quaranta giorni di navigazione, si sa che proviene da nord, più
oltre non c'è essere umano che sappia dire per che regioni scorra:
evidentemente fluisce attraverso un deserto verso il paese degli Sciti
agricoltori. Questi Sciti abitano attorno alle sue rive per un tratto
pari a dieci giorni di navigazione. Il Boristene è l'unico fiume, col
Nilo, di cui non so indicare le sorgenti; del resto nessun Greco credo
lo sappia. Il Boristene in un tratto ormai non lontano dal mare riceve
le acque dell'Ipani, che sfocia nella medesima palude. La zona compresa
tra i due fiumi, un vero cuneo di terra, è detta Promontorio di Ippolao;
vi sorge un tempio di Demetra; oltre il santuario, sull'Ipani, abitano i
Boristeniti. 54) Tali sono le notizie su questi fiumi; il quinto fiume, poi, si chiama
Panticape: proviene anch'esso da nord e da un lago; fra il corso suo e
quello del Boristene vivono gli Sciti agricoltori; sbocca nell'Ilea,
oltrepassata la quale confluisce nel Boristene. 55) Il sesto è l'Ipaciri, che ha origine da un lago e attraversa nel mezzo gli
Sciti nomadi e sfocia presso la città di Carcinitide, chiudendo sulla
sua destra l'Ilea e il cosiddetto Corso d'Achille. 56) Settimo è il fiume Gerro, che si divide dal Boristene proprio nel punto
fino al quale si spinge la nostra conoscenza del Boristene: la regione
in cui si separa si chiama Gerro, come il fiume stesso. Prosegue poi
verso il mare segnando il confine fra la regione degli Sciti nomadi e il
paese degli Sciti regi; si immette nell'Ipaciri. 57) Ottavo è il fiume Tanai: ha origine da un lago e va a sfociare in un lago
ancora più grande, la Palude Meotide, che separa gli Sciti regi dai
Sauromati. Nel Tanai si getta un altro corso d'acqua, l'Irgi. 58) Tali sono dunque i fiumi famosi di cui godono gli Sciti. Per il bestiame il
foraggio che cresce nella Scizia è il più attivo a produrre bile fra
tutte le erbe a nostra conoscenza; ci si può rendere conto che è così
sventrando gli animali. 59) Le risorse fondamentali gli Sciti le hanno dunque facilmente a
disposizione; per il resto ecco le loro consuetudini. Venerano soltanto
le seguenti divinità: Estia, principalmente, poi Zeus e la Terra, che
ritengono moglie di Zeus, poi Apollo, Afrodite Urania, Eracle e Ares.
Questi sono gli dèi di tutti gli Sciti; gli Sciti regi compiono
sacrifici anche in onore di Posidone. In lingua scita Estia si chiama
Tabitì, Zeus (a mio parere il nome è appropriatissimo) è detto Papeo;
Terra si dice Apì, Apollo Getosiro, Afrodite Urania Argímpasa e
Posidone Tagimasáda. Di regola non edificano né statue, né altari, né
templi, se non ad Ares: per Ares è un'usanza normale. 60) La tecnica sacrificale è identica per tutte le cerimonie ed è la
seguente: la vittima sta in piedi con le zampe anteriori legate, il
sacrificante si pone dietro la bestia e la fa cadere dando uno strappo
all'estremità della corda; mentre l'animale cade il sacrificante invoca
il dio cui il sacrificio è destinato, poi passa un laccio intorno al
collo dell'animale, vi introduce un bastone e lo gira fino a strozzare
la vittima; fuoco, offerta di primizie e libagioni non ce ne sono. Dopo
averla strozzata e scuoiata si accinge a cuocerla. 61) E poiché la Scizia è terribilmente povera di legname ecco quale sistema
di cottura hanno escogitato. Quando scuoiano la bestia, separano la
carne dalle ossa e la gettano, se ce l'hanno, in lebeti di fabbricazione
locale, molto simili ai crateri di Lesbo, ma assai più grandi. Qui
dentro la cuociono accendendovi sotto il fuoco con le ossa delle
vittime. Se non hanno un lebete a disposizione, alcuni introducono tutte
le carni nel ventre della vittima, vi aggiungono acqua e le mettono ad
arrostire sul fuoco d'ossa. Le ossa bruciano benissimo e le pance
contengono agevolmente le carni disossate; in questo modo un bue basterà
a cuocere se stesso e così ogni altro capo di bestiame. Quando le carni
sono cotte il sacrificante sceglie come primizie pezzi di carne e di
interiora e le scaglia davanti a sé. Sacrificano anche altre specie di
animali e soprattutto cavalli. 62) Agli altri dèi offrono sacrifici così e con questi animali, ad Ares
invece come segue: nei vari distretti di ciascuno dei regni hanno un
santuario di Ares fatto così: vengono accatastate fascine di legna per
tre stadi in lunghezza e altrettanti in larghezza; l'altezza è
inferiore. Sopra la catasta si costruisce un piano quadrangolare
scosceso su tre lati e accessibile dal quarto. Ogni anno vi ammassano
sopra centocinquanta carri di legna, dato che le intemperie riducono di
volta in volta il materiale. Su questo cumulo in ogni distretto viene
piantata una spada antica di ferro, a mo' di immagine di Ares, e a
questa spada offrono annuali sacrifici di bestiame e di cavalli in
maggior numero che non agli altri dèi. I nemici catturati vivi li
uccidono in ragione di uno su cento, non come fanno con gli animali, ma
in un altro modo: gli versano del vino sulla testa e li sgozzano sopra
un vaso; portano poi tale recipiente in cima alla catasta di legna e
versano il sangue sulla spada. Il sangue lo portano di sopra, sotto
invece accanto al santuario compiono un altro rito: tagliano la spalla
destra e il braccio delle vittime e li scagliano in aria, poi, quando
hanno finito con le altre vittime se ne vanno; il braccio resta lì dove
cade, lontano dal cadavere. 63) Tali sono dunque i loro riti sacrificali. Maiali non ne usano per niente, e
nemmeno ne vogliono allevare nel loro paese. 64) Ecco poi come si regolano per la guerra. Quando uno Scita ha abbattuto il
primo nemico, ne beve il sangue: di tutti quelli che ha ucciso in
battaglia porta la testa al re, perché se si presenta con delle teste
partecipa alla spartizione del bottino eventualmente conquistato,
altrimenti no. Effettuano così lo scalpo: incidono la pelle tutto
intorno alla testa all'altezza delle orecchie, la afferrano e la
strappano via; poi con una costola di bue ciascuno la scarnifica e la
rende morbida con le sue mani; dopo la concia se la tiene come se fosse
una pezzuola: la appende ai finimenti del proprio cavallo e se ne vanta,
perché chi possiede più pezzuole è considerato il più valoroso. Non
pochi con questi scalpi si fanno persino dei mantelli da indossare,
cucendoli assieme come fossero casacche da pastori. Molti poi asportano
la pelle della mano destra ai cadaveri dei nemici, con tutte le unghie,
e ne fanno coperchi per le faretre. La pelle umana risultava appunto
spessa e lucida, la più lucida forse, per bianchezza, fra tutte le
pelli. Molti scorticano addirittura interi uomini, ne tendono la pelle
fra dei legni e la portano in giro a cavallo. 65) Tali sono dunque le loro consuetudini. Le teste poi, non di tutti, ma
quelle dei peggiori nemici, le trattano così: segano la calotta cranica
sotto le sopracciglia e la ripuliscono; poi, se uno è povero si limita
a rivestirla esternamente con pelle di bue non conciata e se ne serve
così come tazza, se invece è ricco, oltre alla pelle di bue esterna,
la riveste d'oro internamente. Fa così anche con i familiari, se sia
sorta una lite, chi riesca a prevalere in giudizio davanti al re. E
quando uno riceve degli ospiti un po' importanti, gli mostra queste
teste e gli spiega che si tratta di parenti che gli hanno portato guerra
e sui quali lui ha trionfato: e ne parla come di una autentica impresa
valorosa. 66) Una volta all'anno, ogni anno, ciascun governatore di distretto nella
propria provincia mescola vino e acqua in un cratere; a tale cratere
attingono tutti gli Sciti che abbiano ucciso dei nemici. Gli Sciti che
non l'abbiano fatto non possono assaggiare questo vino e stanno seduti
in disparte disprezzati: il che per loro è un'orrenda vergogna; gli
Sciti, poi, che hanno ucciso parecchi nemici bevono contemporaneamente
con due coppe. 67) Fra gli Sciti ci sono molti indovini che si servono per i loro vaticini di
numerose verghe di salice: portano dei grossi fasci di verghe e li
appoggiano per terra, li sciolgono e posando le verghe una per una
profetizzano; sempre profetizzando raccolgono ancora i fuscelli e di
nuovo li posano uno per uno. Questa è l'arte divinatoria ricevuta dai
loro padri; gli Enarei invece, gli androgini, fanno risalire agli
insegnamenti di Afrodite la loro tecnica di divinazione, che si fa con
la corteccia di tiglio: tagliano in tre striscioline la corteccia del
tiglio, poi pronunciano l'oracolo intrecciandole e slegandole dalle
dita. 68) Quando il re degli Sciti si ammala, manda a chiamare i tre indovini più
rinomati, i quali danno il loro responso nel modo suddetto; per lo più
essi affermano che il tale o il tal altro (e indicano le persone a cui
si riferiscono) ha spergiurato in nome del focolare reale. In effetti è
consuetudine degli Sciti, quando vogliono fare il giuramento più
solenne, giurare sul focolare reale. Subito l'individuo dichiarato
spergiuro viene catturato e condotto dagli indovini; quando è davanti a
loro lo accusano: dalla divinazione, affermano, risulta che lui ha
spergiurato sul focolare reale e che per questa regione il re è malato.
Quello nega, sostenendo di non aver spergiurato e protesta. Visto che
nega, il re manda a chiamare altri indovini, in numero doppio; se anche
questi osservando il rituale divinatorio lo riconoscono colpevole di
spergiuro, immediatamente gli si taglia la testa: e i suoi beni se li
spartiscono a sorte i primi indovini; se invece gli indovini
sopraggiunti lo scagionano dall'accusa, si chiamano altri indovini e poi
altri ancora; se la maggior parte di loro è per l'innocenza, tocca ai
primi indovini di essere mandati a morte. 69) E li uccidono così: caricano di fascine un carro e vi aggiogano dei buoi,
incatenano gli indovini per i piedi e gli legano le mani dietro la
schiena, li imbavagliano e li costringono in mezzo alla legna; appiccano
fuoco ai sarmenti e lasciano andare i buoi, dopo averli così
terrorizzati. Molti buoi finiscono carbonizzati insieme con gli
indovini, molti, anche mezzo bruciacchiati, riescono a scampare quando
il timone del carro sia stato ridotto in cenere dalle fiamme. Anche per
altre colpe spediscono al rogo gli indovini nel modo suddetto, e li
chiamano pseudoindovini. Se è il re a mandarli a morte non ne risparmia
nemmeno i figli: i maschi li uccide tutti, alle femmine invece non torce
un capello. 70) Ecco come si comportano gli Sciti quando giurano: versano del vino in una
grande coppa di terracotta e vi aggiungono un po' di sangue delle
persone che stringono il patto; a tale scopo si colpiscono con una
lesina o si praticano col coltello una piccola incisione superficiale;
poi immergono nella coppa una spada, delle frecce, un'ascia e un
giavellotto. Fatto ciò, pronunciano molte preghiere rituali e vuotano,
bevendo, la coppa, sia quelli che stringono il patto sia i più
autorevoli del loro seguito. 71) Le tombe dei re si trovano fra i Gerri, nel punto estremo fino a cui il
Boristene è navigabile. Là, quando gli muore il re, scavano una enorme
fossa di forma quadrata; dopo che la fossa è pronta, prendono il corpo
del re (tutto cosparso di cera, col ventre che è stato aperto e
ripulito, riempito di cipero in polvere, di aromi, di semi d'apio e di
aneto e poi di nuovo ricucito) e su di un carro lo trasportano presso un
altro popolo. Quelli che ricevono il cadavere trasportato si comportano
esattamente come gli Sciti regi: si recidono un pezzo di orecchio, si
radono i capelli tutto intorno alla testa, si tagliuzzano le braccia, si
graffiano la fronte e il naso, si trafiggono con frecce la mano
sinistra. Di là portano sul carro il cadavere del re presso un altro
popolo a loro sottomesso; li seguono gli abitanti della prima regione in
cui erano giunti. Quando hanno fatto il giro di tutti i popoli, portando
il cadavere, si trovano fra i Gerri, gli ultimi fra i popoli loro
soggetti, nel luogo delle sepolture. Depongono il morto nella camera
sepolcrale sopra un pagliericcio e piantano lance ai due lati del
cadavere; sopra le lance appoggiano dei legni, poi ricoprono con stuoie
l'impalcatura così ottenuta; nell'ampio spazio libero della camera
seppelliscono una delle concubine del re dopo averla strangolata, nonché
un coppiere, un cuoco, uno scudiero, un servo, un messaggero, e cavalli,
una scelta di tutti gli altri beni e coppe d'oro; d'argento niente e
neppure di bronzo. Dopodiché tutti si affannano a innalzare un grande
tumulo, impegnandosi al massimo, in gara, per farlo il più alto
possibile. 72) Ed ecco ancora cosa fanno quando è trascorso un anno: prendono i più
adatti di tutti i servi rimasti (che sono Sciti di nascita, perché
servi divengono solo gli Sciti a cui il re lo ordina; non ci sono da
loro servi comperati) e ne strangolano una cinquantina; ammazzano anche
cinquanta cavalli di gran pregio: ne svuotano il ventre, lo purificano,
lo riempiono di paglia e lo ricuciono. Fissano poi su due paletti una
mezza ruota rovesciata, l'altra mezza ruota su altri due paletti e ne
piantano in terra tanti così in tale modo; poi infilano grossi pali
dentro i cavalli nel senso della lunghezza fino alla gola e li
appoggiano sulle ruote. Le prime mezze ruote sostengono le spalle dei
cavalli le mezze ruote posteriori reggono le pance all'altezza delle
cosce; le zampe restano penzolanti da entrambe le parti. Mettono morsi e
redini ai cavalli, tendono le redini in avanti e le legano a dei pioli.
Su ciascun cavallo issano ciascuno dei cinquanta giovani strangolati: li
issano così dopo avergli infilato lungo la colonna vertebrale, fino
alla gola, un bastone la cui parte inferiore conficcano in un foro
praticato nell'altro palo, quello che attraversa il cavallo. Sistemano
questi cavalieri tutto intorno alla tomba del re e poi si allontanano. 73) Ecco dunque come seppelliscono i re; quando muoiono gli altri Sciti, i loro
parenti più stretti li trasportano, stesi su carri, in giro dagli
amici: ciascuno degli amici, accogliendo il corteo, allestisce un
banchetto per gli accompagnatori e imbandisce anche per il morto parte
di tutto ciò che offre agli altri. I semplici cittadini vengono
trasportati così per quaranta giorni, poi li si seppellisce. Dopo i
funerali gli Sciti si purificano come segue: si ungono la testa e poi se
la insaponano e la lavano; per il resto del corpo procedono in questo
modo: fissano a terra tre bastoni in piedi uno contro l'altro, vi
stendono sopra coperte di lana, le serrano il più stretto possibile,
poi in un catino piazzato in mezzo alle pertiche e sotto le coperte
gettano pietre arroventate dal fuoco. 74) Nel loro paese cresce la canapa, pianta molto simile al lino, ma più
grossa e più alta; caratteristiche che la rendono assai superiore.
Cresce spontanea o coltivata e da essa i Traci ricavano anche dei
tessuti molto simili a quelli di lino: e se uno non è molto esperto non
riesce a distinguere se sono di lino o di canapa; chi non ha mai visto
la canapa, poi, crederà senz'altro che il vestito sia di lino. 75) Dunque gli Sciti prendono i semi di canapa, si infilano sotto la tenda
fatta di coperte e li gettano sulle pietre roventi; i semi gettati
bruciano producendo un fumo che nessun bagno a vapore greco potrebbe
superare. Gli Sciti urlano di gioia per il fumo che sostituisce per loro
il bagno; in effetti non si lavano il corpo con acqua. Le loro donne per
esempio pestano legno di cipresso, di cedro e pezzetti di incenso su una
pietra scabra, vi versano su acqua, poi si spalmano l'intruglio, una
sostanza grassa, sul corpo e sul viso: e non solo gli resta addosso il
profumo dell'impasto, ma quando se lo tolgono, il giorno dopo, hanno la
pelle pura e luminosa. 76) Anche gli Sciti evitano assolutamente di adottare usanze straniere, di
qualunque altro popolo e in modo particolare dei Greci; prova ne furono
le vicende di Anacarsi e dopo di lui, ancora, di Scile. Anacarsi, dopo
aver visitato gran parte del mondo dando prova ovunque della sua
saggezza, stava rientrando in patria e, navigando attraverso
l'Ellesponto, approdò a Cizico; a Cizico trovò gli abitanti intenti a
celebrare con straordinaria magnificenza una festa in onore della Madre
degli dèi; Anacarsi promise solennemente alla dea, se tornava a casa
sano e salvo, di offrirle sacrifici come li aveva visti fare dai
Ciziceni e di istituire una notte di veglia. Quando arrivò in Scizia,
si inoltrò nella cosiddetta Ilea (una regione situata presso il Corso
d'Achille, interamente ricoperta di alberi di ogni specie) e vi compì
tutto il rituale festivo della dea, con tanto di timpano e sacre
immagini appese al collo. E uno Scita che lo aveva osservato mentre
eseguiva tale rituale andò a riferirlo al re Saulio; il re accorse di
persona e, appena vide Anacarsi e cosa faceva, lo uccise subito con una
freccia. E oggi se uno pone domande su Anacarsi, gli Sciti negano di
conoscerlo, solo perché se ne andò in Grecia, fuori del suo paese, e
adottò usanze straniere. Come ho appreso da Timne, uomo di fiducia di
Ariapite, Anacarsi era zio paterno del re scita Idantirsi e figlio di
Gnuro figlio di Lico a sua volta figlio di Spargapite. Se dunque
Anacarsi apparteneva a questa famiglia, sappia di essere morto per mano
del fratello: Idantirsi infatti era figlio di Saulio e fu Saulio a
uccidere Anacarsi. 77) Per la verità io ho udito anche un'altra versione, raccontata dai
Peloponnesiaci, secondo la quale Anacarsi, inviato dal re degli Sciti,
divenne "discepolo" della Grecia; al suo ritorno avrebbe
spiegato a chi lo aveva mandato in Grecia che tutti i Greci erano
impegnatissimi a studiare ogni tipo di scienza, a eccezione degli
Spartani, i quali peraltro erano gli unici con cui si potesse scambiare
un discorso intelligente. Ma questo racconto è stato inventato di sana
pianta dai Greci stessi, e Anacarsi realmente fu ucciso come poco sopra
è stato detto. 78) Anacarsi insomma trovò la fine che trovò per aver accettato usanze
straniere e fraternizzato con i Greci. Molti anni più tardi Scile
figlio di Ariapite subì una sorte del tutto analoga. Scile era uno dei
tanti figli del re scita Ariapite: era nato non da una donna del posto,
bensì da una Istriana, che gli insegnò personalmente il greco, a
parlarlo, a leggerlo e a scriverlo. Molto tempo più tardi Ariapite morì
in un agguato tesogli da Spargapite, re degli Agatirsi, e Scile ereditò
il regno e la moglie di suo padre, che si chiamava Opea; Opea era una
cittadina scita che ad Ariapite aveva dato un figlio, Orico. Regnando
sugli Sciti Scile non si adattava affatto al sistema di vita degli Sciti,
ma inclinava assai più volentieri alle abitudini elleniche a causa
dell'educazione ricevuta, ed ecco come si comportava. Quando conduceva
l'esercito scita verso la città dei Boristeniti (questi Boristeniti si
autodichiarano coloni di Mileto), appena giunto nel loro territorio,
Scile abbandonava i soldati nei dintorni della città; lui entrava oltre
le mura e ne faceva chiudere le porte, smetteva la veste scita e
indossava un costume greco: così vestito si intratteneva nella piazza
del mercato senza scorta di dorifori o di alcun altro (le guardie
vegliavano alle porte che nessuno Scita lo vedesse abbigliato da Greco).
In tutto e per tutto si comportava come un vero Greco e offriva anche
sacrifici agli dèi secondo il rituale ellenico. Passato un mese, o
anche più, si rivestiva da Scita e se ne andava. Agiva così spesso: a
Boristene si costruì un palazzo e vi installò una donna del luogo, che
aveva sposato. 79) Ma era destino che le cose gli andassero male, ed ecco quale ne fu il
motivo scatenante. Scile desiderò ardentemente essere iniziato ai
misteri di Dioniso Bacco: ma quando stava già per ricevere
l'iniziazione, si verificò un prodigio eccezionale. Nella città dei
Boristeniti possedeva una vasta, lussuosa dimora, come ho ricordato poco
fa, intorno alla quale erano installate sfingi e grifoni di marmo
bianco. Su questo palazzo il dio scagliò un fulmine. Il palazzo andò
completamente distrutto dalle fiamme, ma nondimeno Scile portò a
termine l'iniziazione. Gli Sciti biasimano assai i Greci per i loro riti
bacchici: secondo loro non è normale inventare un dio che porta gli
uomini alla pazzia. Quando Scile fu iniziato a Bacco, uno dei
Boristeniti si premurò di andare dagli Sciti a dire: "Voi ci
prendete in giro, Sciti, per i nostri baccanali e perché il dio si
impossessa di noi; ora questo demone si è impossessato anche del vostro
re, che adesso baccheggia e folleggia per opera del dio. Se non mi
credete, venite con me e ve lo mostrerò". Lo seguirono i
maggiorenti Sciti: il Boristenita li guidò e di nascosto li fece salire
su di una torre. Passò nei pressi Scile nel tiaso e gli Sciti lo
videro, invasato da Bacco: la considerarono una sciagura terribile e
tornarono a riferire alle truppe quanto avevano visto. 80) Quando poi Scile fece ritorno nelle proprie sedi, gli Sciti s'erano già
scelti come capo Octamasade, fratello suo, nato dalla figlia di Tereo, e
gli si ribellarono. Scile, appena ebbe inteso cosa si tramava contro di
lui e per quale ragione, se ne fuggì in Tracia. Octamasade lo venne a
sapere e marciò in armi contro la Tracia. Sul fiume Istro si trovò di
fronte i Traci, e già stavano per scontrarsi, quando Sitalce mandò a
dire a Octamasade quanto segue: "Che ragione abbiamo per misurarci
l'uno con l'altro? Tu sei figlio di mia sorella e hai nelle tue mani mio
fratello. Tu restituiscimi mio fratello e io ti consegnerò il tuo Scile.
Non mettiamo a repentaglio i nostri eserciti". Questo gli diceva
Sitalce per mezzo di un araldo; in effetti presso Octamasade si trovava
un fratello di Sitalce, come rifugiato. Octamasade approvò la proposta:
consegnò il proprio zio materno a Sitalce e si prese il fratello Scile.
Sitalce, quando ricevette il fratello, se lo portò via, Octamasade
invece a Scile fece tagliare la testa lì sul posto. Tanto dunque
rispettano gli Sciti le proprie costumanze e tanto puniscono quelli che
adottano usanze straniere. 81) Quanto al numero degli Sciti non sono stato in grado di ottenere
informazioni sicure, ho udito anzi versioni assai differenti: e in
effetti li dicevano troppi o troppo pochi, per un popolo come gli Sciti.
Ma ecco quanto ho constatato di persona. Tra i fiumi Boristene e Ipani
c'è una regione, che si chiama Esampeo e ho menzionato anche un po' fa,
dicendo che vi zampilla una sorgente amara, la cui acqua affluendo nell'Ipani
lo rende imbevibile. In questa regione c'è un vaso di bronzo sei volte
più grande del cratere dedicato agli dèi da Pausania figlio di
Cleombroto all'imboccatura del Ponto. Per chi non lo avesse mai visto
fornisco le seguenti indicazioni: il vaso degli Sciti contiene
facilmente seicento anfore e il suo spessore è di sei dita. La gente
del luogo mi diceva che tale recipiente fu fabbricato con punte di
frecce; un loro re, che si chiamava Arianta, volendo conoscere il numero
degli Sciti, ordinò a tutti di portare ciascuno una punta di freccia;
per chi non l'avesse fatto minacciava la morte. Fu portato dunque un
enorme quantitativo di punte di freccia e il re decise di ricavarne un
monumento per i posteri: con le frecce venne fabbricato il vaso di
bronzo e lo si consacrò nell'Esampeo. Questo è quanto ho udito
raccontare circa il numero degli Sciti. 82) Il paese in sé non presenta particolari meraviglie, se si escludono i
fiumi, che sono davvero molto grandi e numerosi. Ma escludendo i fiumi e
la vastità della pianura la cosa più degna di meraviglia è la
seguente: impressa su di una roccia ti mostrano l'orma di Eracle, che è
in tutto e per tutto simile alla pianta di un piede umano, ma è lunga
due cubiti e si trova presso il fiume Tira. Questo è tutto e ora tornerò
al racconto che avevo cominciato a esporre. 83) Mentre Dario si preparava a combattere contro gli Sciti e inviava vari
messaggeri per impartire gli ordini qui di procurare fanteria, là navi,
e là di aggiogare le rive del Bosforo Tracico, Artabano, figlio di
Istaspe e fratello di Dario, lo pregava di non guidare assolutamente una
spedizione contro gli Sciti, dei quali sottolineava l'inafferrabilità.
Ma poiché nonostante gli ottimi consigli non riusciva a convincerlo,
rinunciò, e Dario, ultimati i preparativi, mosse il suo esercito da
Susa. 84) A quel punto un Persiano, Eobazo, che aveva tre figli e tutti e tre in
procinto di partire per la spedizione, pregò Dario di lasciargliene uno
in patria. E Dario gli rispose, come si risponde a un amico che avanza
una richiesta moderata, che glieli avrebbe lasciati tutti. Eobazo era
molto contento, pensando che i figli venissero dispensati dagli obblighi
militari, ma Dario ordinò agli addetti a simili incombenze di uccidere
tutti i figli di Eobazo. Ed essi furono lasciati dove si trovavano,
sgozzati. 85) Dario, partito da Susa, giunse nella Calcedonia, sul Bosforo, dove a mo' di
giogo era stato gettato il ponte; da lì, imbarcatosi sulle navi,
raggiunse le cosiddette rocce Cianee, che a sentire i Greci un tempo
erano erranti; qui si sedette su di un promontorio a contemplare il
Ponto, un panorama degno davvero di essere ammirato. In effetti il Ponto
è il più stupendo di tutti i mari esistenti, lungo undicimila e cento
stadi, e largo, nel punto di maggiore ampiezza, tremilatrecento.
L'imboccatura di questo mare è larga quattro stadi; 120 invece è lungo
lo stretto formato dall'imboccatura, chiamato Bosforo, sul quale fu
gettato il ponte. Il Bosforo si protende nella Propontide; la Propontide,
larga 500 stadi e lunga 1400, immette nell'Ellesponto, largo solamente
sette stadi e lungo 400. L'Ellesponto si apre su di un'ampia distesa
marina, il Mare Egeo. 86) Le misure sono state calcolate così: una nave in una intera giornata di
navigazione può percorrere al massimo 70.000 orgie, e altre 60.000 di
notte. Ebbene dal Bosforo al fiume Fasi (cioè fra i punti estremi del
Ponto nel senso della lunghezza) ci sono nove giorni e otto notti di
navigazione: vale a dire 1.110.000 orgie, che fanno 11.100 stadi. Dal
paese dei Sindi fino alla Temiscira sul fiume Termodonte (cioè nel
punto di maggiore larghezza del Ponto) ci sono tre giorni e due notti di
navigazione, vale a dire 330.000 orgie che fanno 3.300 stadi. Ecco
dunque le misure del Ponto, del Bosforo e dell'Ellesponto, calcolate da
me come ho detto; vi è poi un lago comunicante con il Ponto, di
dimensioni non molto inferiori, che si chiama Meotide e che dà origine
al Ponto. 87) Dario, dopo aver contemplato tale mare, tornò indietro fino al ponte, che
era stato progettato da Mandrocle di Samo. Dopo aver contemplato anche
il Bosforo, eresse colà due colonne di marmo bianco, con inciso,
nell'una in caratteri assiri nell'altra in caratteri greci, l'elenco di
tutte le popolazioni da lui guidate fino lì; e guidava tutte le genti
su cui comandava: senza contare la flotta, aveva con sé 700.000 uomini,
cavalieri compresi, e le navi radunate erano 600. Queste due colonne, in
seguito, se le portarono in città gli abitanti di Bisanzio e le
utilizzarono nella costruzione dell'altare di Artemide Ortosia, a
eccezione di un blocco soltanto, che fu abbandonato presso il tempio di
Dioniso a Bisanzio: è tutto ricoperto da un'iscrizione in caratteri
assiri. Il punto esatto del Bosforo in cui re Dario gettò il ponte, per
quanto posso congetturare, si trova a metà strada fra Bisanzio e il
santuario posto all'imboccatura dello stretto. 88) Dario poi, soddisfatto del ponte di barche, donò al suo progettista,
Mandrocle di Samo, dieci regali di ogni genere. Grazie a essi Mandrocle,
come primizia da offrire agli dèi, commissionò un quadro raffigurante
tutto il lavoro impiegato per la costruzione del ponte sul Bosforo, con
Dario seduto in prima fila e l'esercito nell'atto di attraversarlo, e
dopo averlo fatto dipingere lo dedicò nel tempio di Era, accompagnato
da questa iscrizione:....”Poi
che sui flutti pescosi del Bosforo un ponte costrusse, Volle Mandrocle
alla Diva questo ricordo offerire. Ei s’acquistò una corona per sè,
per i Sami la gloria, Del suo re Dario il comando con precisione
eseguendo”....( Dopo aver unito il Bosforo pescoso, Mandrocle
dedicò a Era questo ricordo del ponte. Sul proprio capo ha posto una
corona, e gloria ai cittadini di Samo realizzando la volontà del re
Dario). 89) Questo fu il ricordo lasciato dal costruttore del ponte. Ricompensato
Mandrocle, Dario passò in Europa; aveva ordinato agli Ioni di navigare
sul Ponto fino al fiume Istro, una volta sull'Istro di aspettarlo lì e
intanto di unire con un ponte le due rive del fiume. In effetti la
flotta la guidavano Ioni, Eoli e abitanti dell'Ellesponto. Le navi,
superate le rocce Cianee, navigarono dritte verso l'Istro; risalirono il
fiume per due giorni di navigazione fino allo stretto a partire dal
quale si divide in varie bocche e lì prepararono il passaggio. Dario,
attraversato il Bosforo sul ponte di barche, si inoltrò nella Tracia,
poi, giunto alle sorgenti del fiume Tearo, vi si accampò per tre
giorni. 90) Le popolazioni che abitano sulle sue rive sostengono che il Tearo, ricco di
virtù curative, sia ottimo in particolare per guarire uomini e cavalli
dalla scabbia. Le sue sorgenti sono ben 38, tutte zampillanti dalla
medesima roccia; e alcune sono fredde altre calde. Per raggiungerle la
strada è ugualmente lunga sia che si parta dalla città di Ereo presso
Perinto sia da Apollonia sul Ponto Eusino: due giorni di viaggio. Il
fiume Tearo confluisce nel Contadesdo, il Contadesdo nell'Agriane e l'Agriane
nell'Ebro, il quale sfocia in mare presso la città di Eno. 91) Insomma, giunto sul Tearo e posto l'accampamento, Dario, soddisfatto del
fiume, eresse anche lì una colonna, su cui aveva comandato di incidere
la seguente iscrizione: "Le sorgenti del fiume Tearo forniscono
l'acqua migliore e più bella di tutti i fiumi; e a esse, guidando un
esercito contro gli Sciti, giunse il migliore e il più bello di tutti
gli uomini, Dario di Istaspe, re di Persia e dell'intero
continente". Queste le parole fatte incidere lì. 92) Lasciato il Tearo, Dario arrivò a un altro fiume, che si chiama Artesco e
scorre attraverso il paese degli Odrisi. Ecco cosa fece quando giunse a
questo fiume. Indicò un determinato luogo al suo esercito e dispose che
ogni soldato, passandogli vicino, gettasse una pietra nel punto
indicato. L'esercito eseguì l'ordine, sicché, quando Dario guidò
oltre le sue truppe, sul posto lasciò giganteschi mucchi di pietre. 93) Prima di toccare l'Istro sconfisse come primo popolo i Geti, che si
ritengono immortali. Infatti i Traci che vivono sul promontorio
Salmidesso sopra le città di Apollonia e Mesambria, i cosiddetti
Scirmiadi e Nipsei, si erano arresi a Dario senza combattere. I Geti
invece optarono per la follia e furono subito ridotti in schiavitù,
benché fossero i più valorosi e i più giusti fra i Traci. 94) Essi si ritengono immortali in questo senso: sono convinti che lo scomparso
non muoia propriamente, bensì raggiunga il dio Salmossi. Altri Geti
questo stesso dio lo chiamano Gebeleizi. Ogni quattro anni mandano uno
di loro, tratto a sorte, a portare un messaggio a Salmossi, secondo le
necessità del momento. E lo mandano così: tre Geti hanno l'incarico di
tenere tre giavellotti, altri afferrano per le mani e per i piedi il
messaggero designato, lo fanno roteare a mezz'aria e lo scagliano sulle
lance. Se muore trafitto, ritengono che il dio sia propizio; se non
muore, accusano il messaggero, sostenendo che è un uomo malvagio, e
quindi ne inviano un altro; l'incarico glielo affidano mentre è ancora
vivo. Questi stessi Traci di fronte a un tuono o a un fulmine, scagliano
in cielo una freccia pronunciando minacce contro Salmossi, perché
credono che non esista altro dio se non il loro. 95) Come ho appreso dai Greci residenti sul Ponto e sull'Ellesponto, questo
Salmossi era un uomo che sarebbe stato schiavo a Samo, schiavo di
Pitagora figlio di Mnesarco. Poi, divenuto libero, si sarebbe assai
arricchito e avrebbe fatto ritorno, da ricco, nel proprio paese. Poiché
i Traci conducevano una vita grama e stupida, Salmossi, che conosceva il
sistema di vita degli Ioni e abitudini più progredite di quelle tracie
(avrebbe frequentato i Greci, e fra i Greci Pitagora, che non era certo
il savio più scadente), fece costruire un salone, in cui ospitava i
cittadini più ragguardevoli; fra un banchetto e l'altro insegnava che né
lui né i suoi convitati né i loro discendenti sarebbero morti, ma
avrebbero raggiunto un luogo dove sarebbero rimasti per sempre a godere
di ogni bene. Mentre così operava e diceva, si costruiva una stanza
sotterranea. E quando la stanza fu ultimata, Salmossi scomparve alla
vista dei Traci: scese nella dimora sotterranea e vi abitò per tre
anni. I suoi ospiti ne sentivano la mancanza e lo piangevano per morto;
ma egli dopo tre anni si mostrò ai Traci e in tal modo i suoi
insegnamenti risultarono credibili. 96) Questo si racconta che abbia fatto Salmossi. Io questa storia della camera
sotterranea non la rifiuto, ma neppure ci credo troppo; penso comunque
che questo Salmossi sia vissuto molti anni prima di Pitagora. Se sia
stato un uomo e se ora sia un dio locale per i Geti, chiudiamo qui la
questione. 97) I Geti insomma, con tutte le loro convinzioni, furono sconfitti dai
Persiani e subito si aggregarono al resto della truppa. Come Dario
giunse all'Istro, e con lui l'esercito di terra, e quando tutti lo
ebbero attraversato, Dario ordinò agli Ioni di smontare il ponte di
barche e di seguirlo sulla terra ferma con tutti gli uomini della
flotta. Quando già gli Ioni stavano per obbedire e smontare il ponte,
Coe figlio di Erxandro, stratego dei Mitilenesi, chiese a Dario se gli
faceva piacere ascoltare un parere da parte di chi volesse esporlo e gli
disse: "Ora tu ti appresti a marciare attraverso un paese in cui
non si vedrà terreno coltivato o città abitata; lascia dunque in piedi
questo ponte e lascia a presidiarlo quelli che l'hanno costruito. Se
troviamo gli Sciti e le cose vanno nel modo voluto, avremo una via di
ritorno, se invece non riusciamo a trovarli, avremo per lo meno una via
di ritorno sicura: io non temo affatto che noi saremo sconfitti in
battaglia, ma ho paura piuttosto, se non riusciamo a trovarli, di dover
patire assai vagando senza costrutto. Qualcuno potrebbe obiettare che ti
parlo nel mio interesse, per restare qui; ma io voglio semplicemente
esporre in pubblico la proposta più vantaggiosa per te che ho saputo
trovare; quanto a me ti seguirò e davvero non vorrei essere lasciato
qui". Dario fu assai contento di questo suggerimento e così
rispose a Coe: "Straniero di Lesbo, quando sarò tornato sano e
salvo nel mio palazzo, presentati da me, assolutamente, perché io possa
ricambiare il tuo eccellente consiglio in modo eccellente e
concreto". 98) Detto ciò, fece 60 nodi a una striscia di cuoio, convocò a rapporto i
tiranni degli Ioni e disse loro: "Ioni, gli ordini relativi al
ponte che vi avevo impartito vanno modificati; prendete questa cinghia e
regolatevi come vi dico: a partire dal momento in cui mi vedete avanzare
contro gli Sciti, a partire esattamente da quel momento, sciogliete un
nodo ogni giorno che passa; se in questo arco di tempo io non sono di
nuovo qui e i giorni superano il numero dei nodi, salpate e tornate nel
vostro paese. Ma fino ad allora, dato che ho cambiato idea, sorvegliate
il ponte di barche, mettete tutto il vostro impegno nel conservarlo e
custodirlo. Così facendo mi renderete un servigio assai gradito".
Così parlò Dario; poi si mise in marcia. 99) La Tracia si estende sul mare come propaggine della Scizia: oltre il golfo
formato dalla Tracia ci si trova subito in Scizia; vi sbocca il fiume
Istro dopo aver piegato il suo corso in direzione del vento di Euro.
Passo ora a descrivere, partendo dall'Istro, la regione costiera, per
dare indicazioni sulle dimensioni della Scizia. Oltre l'Istro si è già
nella Scizia antica, volta verso il sud e il vento Noto fino alla città
detta Carcinitide. Il territorio contiguo si affaccia sullo stesso mare
ed è montuoso fino al Ponto: lo abitano i Tauri, fino al Chersoneso
cosiddetto "roccioso", che si estende verso il mare in
direzione del vento di levante. E infatti sono due i tratti di confine
scitico che corrono lungo il mare, a sud e a est, proprio come avviene
in Attica; e in un certo senso si potrebbe dire che i Tauri vivono nella
Scizia come nell'Attica un eventuale popolo distinto dagli Ateniesi che
abitasse il Capo Sunio nel suo tratto più proteso sul mare, dal demo di
Torico a quello di Anaflisto; il paragone vale, naturalmente, con le
debite proporzioni. Tale è il territorio dei Tauri. Per chi non abbia
mai navigato lungo tali coste dell'Attica, mi spiegherò con un altro
esempio: sarebbe come se un popolo distinto dagli Iapigi tagliasse fuori
una parte della Iapigia, partendo da Brindisi fino a Taranto, e abitasse
il promontorio. Ho fatto due esempi, ma potrei citare molti altri
territori cui la Tauride somiglia. 100) Al di là della Tauride, vivono gli Sciti, al di sopra dei Tauri e lungo il
mare orientale, come pure a ovest del Bosforo Cimmerio e della Palude
Meotide sino al fiume Tanai, che sfocia in una insenatura di questo
lago. A partire poi dall'Istro la Scizia superiore, verso l'interno, è
delimitata prima dagli Agatirsi, poi dai Neuri, dagli Androfagi e infine
dai Melancleni. 101) Insomma la Scizia ha la forma di un quadrato, con due lati prospicienti il
mare, sicché le sue dimensioni sono uguali, tanto nell'interno quanto
lungo la costa: dall'Istro al Boristene dieci giorni di viaggio, dal
Boristene alla Palude Meotide altri dieci; e venti giorni dal mare verso
l'interno fino al paese dei Melancleni, che abitano sopra gli Sciti. Una
giornata di viaggio la calcolo di circa duecento stadi: in tal modo i
lati trasversali della Scizia dovrebbero misurare 4000 stadi e
altrettanti anche i lati perpendicolari alla costa verso l'interno. Tale
è dunque l'ampiezza di questo paese. 102) Gli Sciti, rendendosi conto che da soli non potevano respingere in campo
aperto l'esercito di Dario, inviarono messaggeri alle popolazioni
confinanti, i cui re, a loro volta riunitisi, discutevano sul da farsi,
vista l'entità dell'esercito invasore: erano convenuti i re dei Tauri,
degli Agatirsi, dei Neuri, degli Androfagi, dei Melancleni, dei Geloni,
dei Budini e dei Sauromati. 103) Fra queste popolazioni i Tauri hanno le seguenti abitudini: sacrificano
alla vergine i naufraghi e i Greci catturati anche al largo; fanno così:
cominciato il rito di consacrazione, colpiscono la vittima sulla testa
con un bastone. Secondo alcuni gettano poi il corpo della vittima giù
da una rupe (in effetti il santuario sorge su di una rupe) e ne piantano
la testa su di un palo. Altri concordano sul trattamento riservato alla
testa, ma sostengono che il corpo non viene scagliato giù dalla rupe
bensì seppellito nella terra. Sono i Tauri stessi ad affermare che la
divinità a cui offrono questi sacrifici è Ifigenia, la figlia di
Agamennone. Ecco come si comportano con i nemici presi prigionieri: gli
tagliano la testa e se la portano ciascuno a casa propria, poi la
piantano su di un lungo bastone e la sistemano sul tetto della casa,
bene in vista, per lo più sopra il comignolo; tali trofei, dicono,
vengono innalzati come custodi di tutta la casa. I Tauri vivono di
saccheggio e di guerra.
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