CAPITOLO 1  <<      >>



I cinquant’anni del dopoguerra a Seccheto, per fasi decennali, rispecchiano una data importante per lo sviluppo sociale ed economico in quella parte meridionale della nostra isola che per molti anni era stata lasciata nell’abbandono più nero. E lo era così tanto dall’apparire sconosciuta alla maggioranza dei miei compaesani, ai quali ne parlavo con così tanto entusiasmo, allorché ebbi la fortuna di trovarmi in quei luoghi. – Seccheto…? Ma dove resta? – rispondevano con sincero stupore, come si trattasse di una terra arida già nella sua etimologia, lontano le mille miglia dai loro interessi culturali. Anch’io, sinceramente, ero all’oscuro di tutto ciò che riguardava quella zona dell’Elba a sud-ovest, benché io conoscessi la parte di Marina di campo dove andavo ogni estate in villeggiatura. I Secchetai venivano qualificati nel campese, ma più specificatamente a San Piero, gli “Scioani”, cioè africani o gente selvaggia. Ogni anno a luglio con la mia famiglia andavamo di solito a sistemarci alla meglio in un magazzino di cui era proprietario un amico di mio padre, l’onest’uomo Badaracchi, altrimenti detto “Luvicoli” che veniva da San Piero a coltivare nel piano il suo modesto podere. Là, nel periodo degli anni trenta, tutto era ancora genuino: la pineta vasta e selvaggia era piena di resina profumata, d’aria pura di pace e di dolcezza. Nei dintorni c’erano aromi di lentischi, eucalipti, finocchi selvatici buoni per le castagne, lauri, mentuccie, corbezzoli, rosmarini e nepitella adatta per le chiocciole.Al limitare della pineta, nella parte centrale, spiccava nitida e pulita  con la facciavista proprio sulla spiaggia, la villa del pittore livornese Plinio  Nomellini, fiorentino d’adozione, presso la quale scorreva ancora, con acqua chiara, il piccolo ruscello di san Mamiliano. Il famoso pittore restava sovente per ore ed ore nei pressi della nostra dimora per lavorare ed imprimere sulla tela i più bei colori del panorama elbano. “L’amico del mondo”, così voleva essere chiamato l’allegro scanzonato pittore, s’intratteneva volentieri con me ed i miei fratelli.Una volta mi fece disegnare una mucca che poi a me pareva non fatta bene, ma lui mi disse che “ in arte non c’è verità universale e ciò che avevo disegnato era vera arte pur se contraria alla verità”. Allora non capii cosa volesse dire, me poi sempre ho tenuto presente il senso delle sue parole. Durante quei periodi estivi con Picciottino e Alceste Nomellini, ero stato qualche volta a fare una gita in barca nella zona di cavoli: allora mi parve tanto lontano quel posto, ma me ne rimase il ricordo per molti anni, anche per via di quel vagoncino che correva sulle rotaie fino agli scogli est sulla spiaggia, con il quale mi divertii molto insieme ai miei fratelli.Poi gli anni erano trascorsi veloci tra studio e lavoro, finché non mi parlò di quei luoghi un compagno di ginnasio che veniva a fare la versione di latino in casa mia. Si chiamava Pisani Alfonso [1] di Seccheto, pensionante dal doganiere Danesi, proprio nei pressi degli Altiforni di Portoferraio. Egli spesso mi parlava di quei posti che rimanevano più a sud di Marina di Campo, dove a aveva la famiglia. Inoltre da soldato, ebbi modo di lavorare qualche giorno alla stazione radio del Genio Militare posta a Cavoli perché, come radiotelegrafista dovevo tenere collegate, a maglia, le stazioni radio di Pomonte e Cavoli con Portoferraio, affinché le notizie militari arrivassero alle Compagnie dislocate nelle varie zone assegnate. Al ritorno dalla prigionia nei lager tedeschi, quel luogo diverrà per me un Paradiso e sarà il mio portafortuna, specie quando al tramonto si trasforma in una piccola baia dorata. Seccheto, parola che non si confà tanto pieno di mare libero, limpido e tanto verde, di brillanti scogliere e colline ubertose, di vigneti che resistono all’incuria dei tempi,oggi quella zona è una piccola vallata e si allunga verso il mare, ai cui lati sorge la simpatica borgata piena di caratteristiche case per il bel granito in opera ed dai luoghi più buffi per i nomi che portano: la Cavallina, le Macine, la Fontina, le Pente ed altri. Poi oltre valle buia, esiste sempre alle ombrose spalle una campagna collinosa verdeggiante di ciliegi, castagni, ontani e piante tra le quali scorre un piccolo ruscello e dove si possono ancora trovare piccole sorgenti d’acqua fresca e potabile come quella del Gombale e Grotta Vallecchia. Quando arrivai la prima settimana dell’anno 1946, con l’incarico di riformare il nucleo scolastico sfaldato, scegliendo tra la popolazione di quattro campagne ben distinte, mi detti da fare con grande entusiasmo e riuscii, non senza fatica, con il valido aiuto degli abitanti interessati, a raggiungere lo scopo mettendo su una pluriclasse di 18 alunni provenienti dalle frazioni di Cavoli, Fetovaia, Seccheto e Valle Buia. La scuola fu rimediata in una piccola stanza dell’avvocato Mellini Piero, dove dormiva ancora l’asino del suo fattore Eriberto. In quei pochi metri quadrati sistemai alla meglio i banchini scolastici, le sedie e la lavagna, rustiche suppellettili avanzate dalla vecchia scuola rurale fascista che erano state conservate nel magazzino di Ernesto Battistini, che era un uomo allegro, sempre pronto allo scherzo e alla barzelletta, probo padre di famiglia. La stanza adibita ad aula scolastica si trovava in pessime condizioni ed aveva urgente bisogno di riparazioni murarie, disinfezione e servizi igienici. Riuscii a trovare nel comune di Campo della calce, anche per mezzo del valido aiuto dei gentili colleghi insegnanti Nannino e Dini Elba che erano persone dal cuore d’oro. Misi la calce sull’asino del Catta G.Battista che si prestò trasportarla fino a Seccheto attraverso la sola mulattiera che esisteva da Marina di Campo. Poi, con la stessa persona che in seguito diverrà mio buon suocero, intonacammo la scuola dandole un aspetto più decente e presentabile, anche per il piccolo gabinetto che sistemammo a fianco. In un primo tempo rimasi nell’aula pure a dormire sulla rete che mi aveva portato Eraldo, padre dell’alunno Walter Spinetti e spesso i topi venivano a rosicchiarmi i calcagni senza che io li sentissi. Nella piccola stanza dove c’era anche un caminetto sufficiente, cucinavo quello che mi serviva, specialmente pesce e farinate. Confesso che per me fu molto difficile avere una pluriclasse da tirare avanti, tenendo conto che avevo istituito anche la quinta classe che mancava in quei luoghi. Ormai sapevo che nella mia sventura si sperimenta la forza umana e che, pur nella mia sfortuna innata,un giorno sarebbe venuto a rendermi felice e così misi al lavoro coraggiosamente. Se si pensa poi che la mia vera professione avrebbe dovuto essere quella di marconista sulle navi internazionali, di cui possedevo il brevetto di prima classe, c’è da immaginarsi come, senza un buon tirocini didattico, avrei potuto insegnare. Però dopo un primo mese un po’…battagliero, con l’aiuto dei miei colleghi di Campo e San Piero, i genitori degli alunni si organizzarono e mi trovarono una buona sistemazione dalle signore Adelaide ed Ivonne e potei lavorare con più tranquillità ed entusiasmo. Per prima cosa volli sapere la storia di Seccheto, giacché mi vedevo circondato da genuini reperti archeologici, da graniti stupendi, da luoghi così tanto misteriosi e pieni di fascino; infatti la gente raccontava di croci d’oro trovate dai pastori alle Mura, di pipette di terracotta che venivano reperite dagli scavi dei colti per la vigna, di vasi ed anfore trovati “alle Tombe” così presso la Grottaccia ed altre fantasiose leggendarie casualità e testimonianze storiche come l’Ara votiva di Ercole trovata in Seccheto. Per l’appunto di là erano passati delle più antiche civiltà mediterranee per servirsi di quei massi enormi e cavarne meravigliose colonne che dovevano sostenere in eterno le grandi arcate delle più suggestive cattedrali del mondo, serene testimoni della gloriosa storia della nostra isola. Monoliti, sarcofaghi, colonne, schiumoli, vasellame tutto era stato portato via da Seccheto. Tengo a precisare che non potendo essere perfetto nelle citazioni storiche in programma, ma nemmeno vorrei che altri andassero a cercare dalle mie note i cavilli per qualche diverbio letterario: ciò che scrivo è fatto intono semplice perché nulla vada perduto delle fatiche degli avi, si chiamassero pure Gazà, Battista, Tocchino, Toni, Bepparello. Nella zona questi soprannomi venivano affibbiati alla gente in tono scherzoso, servivano quindi a riconoscere meglio i figli o i nipoti di un dato gruppo. I vecchi hanno saputo creare il benessere con molta fatica verso la civiltà oggi progredita e non si può immaginare con quanti sacrifici. Allo Seccheto era un posto dove non esistevano strade, ma solo viottoli, non luce elettrica, ma petrolio o candela o acetilene, non acqua degli acquedotti ma dei pozzi o fossi, dove chi si ammalava in quei luoghi doveva essere trasportato a braccia con lettighe posticce; a piedi su per le mulattiere, da Bolle Caldaie ai Castancoli o Ciglio Rosso o con una barca al Colle per Marina di Campo; con tragitti faticosi da non immaginare. Era un luogo dove tutti bevendo l'acqua di polla o pozzo acalcica si trovavano ben presto con la dentatura guasta, un luogo  dove bisognava lavorare molto la terra per campare o con il granito nelle cave per assicurarsi un po' di marchette per la pensione, ma con il pericolo di contrarre la silicosi. E quando lavoravano di zappa, donne comprese, nelle cave,  lo facevano da  sole a sole sudando mille camicie coi il battere il mazzuolo sulla pietra per quei pochi spiccioli che dovevano servire a sfamare tante bocche. Allora bisognava arrangiarsi, partire presto per il Pradaccio a coltivare gli orti.


  

 La sera tutti al mare per correre con la barchetta sulla Sena a pescare e qualche volta anche fino a Pianosa a vela o a remi per portare vino e frutta alla colonia penale magari di Domenica... per contentino. Bisognava essere coltivatori eroici per riuscire a seminare il grano su quei pendii pieni di sassi, di sterpi, di serpenti velenosi. Eppure bisognava fare il pane e conservare la paglia per il somaro che aiutava tanto l'uomo nella fatica quotidiana.Era duro seminare alla Sardaccia  ed alla Piana Sughera.E poi  il fascio di legna di mucchi per fare il fuoco nel camino e scaldarsi prima di andare a letto, respirando in quei pochi metri cubi di aria dentro magazzini dove stava anche la faccia, il mosto e dove mancavano i servizi igienici. ...Quelle cose, oltre il carbone, significavano probabili pericoli di esalazioni gassose e per i servizi igienici bisognava servirsi della stalla o della concimaia o di una baracchetta esterna.In quel tempo maialaie ed ovili erano a non più di una decina di metri dalla casa e quindi molti insetti ristagnavano nei pressi dell'abitato.Uno dei miei amici più cari, il commilitone e compagno di prigionia Nozzoli Attillo, che una volta invitai  nel 1949 in vacanza a Seccheto per qualche giorno, mi ricorda ancora oggi dopo cinquanta anni di distanza, i topi e gli scarafaggi che scorrazzavano di notte nel magazzino dove dormi con la famiglia. Ma c'era allora in compenso l'altra faccia della medaglia ! Era il  godere delle cose genuine che erano i prodotti agricoli, frutto di tante fatiche Infatti ognuno aveva il forno per fare il pane, il prosciutto saporito con le salsicce appese in  un angolo della cantina, dove le damigiane erano colme di vini pregiati, tipo aleatico o moscato, vino nero di grado e nei magazzini potevano esserci anche tre botti di vino bianco, nettare da pasto.Non mancava il vecchio molino di Gazà che macinava castagne per tutte le frazioni dei dintorni e il profumo di quella farina dava un vero senso di beatitudine. Ogni famiglia d'estate faceva la raccolta dei fichi che, opportunamente trattati, servivano per l'inverno insieme all'uva secca, le salse, le marmellate che riempivano le dispense. Le feste di Seccheto erano svago per tutti, ristoro alle fatiche: si ballava e si cantava nei magazzini tra le damigiane al suono della fisarmonica e della chitarra. L'amico Giulio Frassinetti era il mago della serata con la fisarmonica e mi fece tanto appassionare da indurmi ad imparare dopo averne comprata una, così anch'io tenevo le serate con il chitarrista mio cognato sardo PaoIino, artista del granito, allegro giovane che nel lavoro sapeva fare di tutto Gli struffoli, il filtrato ed i fichi mielati erano per le feste principali; Nell'800 Seccheto era composto soltanto da cinque o sei magazzini dove veniva raccolto il prodotto della campagna ed i proprietari erano quasi tutti sanpieresi che a poco a poco si erano stabiliti nella zona formando i nuclei familiari che poi daranno le generazioni future, anche con qualche famiglia del Continente. La zona richiamò ben presto altra gente da fuori, come accennato, così arrivarono i fiorentini dalle varie zone della Toscana, i Pancani, i Battistini e gli elbani del capoluogo. I vecchi gruppi Gianmaria, Pisani, Catta, Spinetti, Badaracchi, Pierulivo, Lupi, Vai ed altri come Batignani, Rocchi, Montauti, Frassinetti che formavano l'entità di allora, si fusero con matrimoni persino tra cugini e quindi con altri nomi formando quasi tutto un parentado che sussiste ancora oggi con le ultime venute dei sardi ed altri immigrati. Intanto le famiglie aumentavano e le esigenze di vita si facevano sempre più impellenti: bisognava battere continuamente attraverso la stampa il tasto di tali necessità, anche perché la zona entrava nei vantaggi che si potevano ottenere per il Mezzogiorno e la Cassa dava contributi per le migliorie da apportare alle varie strutture agricole del dopo-guerra. Quindi acqua, strada e luce dovevano arrivare ben presto per non compromettere il grande impegno di rinascita di una zona che sentiva il bisogno di non restare isolata dalla vita cittadina, anche per il maggior costo del materiale da costruzione che veniva portato via mare da Portoferraio con il periplo da Marciana Marina Pomonte, Sediceto, tempo permettendo o da Marina di Campo con la barca o a dorso di asino per vie impervie. 



[1] Deceduto nella guerra 40-45

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