L'Atlantide |
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CRIZIA TIMEO: Con quanta gioia, o Socrate, come se riposassi dopo un lungo cammino, mi libero ora volentieri del corso del ragionamento. Quel dio, nato un tempo nella realtà e ora nato da poco a parole, io prego che ci garantisca la conservazione, tra tutto ciò che è stato detto, di quelle cose che sono state dette con misura, e se, senza avvedercene, dicemmo qualcosa di stonato su di loro, di infliggere la giusta pena. Ma giusta punizione è rendere intonato colui che stona; affinché dunque in futuro facciamo discorsi corretti sull'origine degli dèi, preghiamo di fornirci la conoscenza, potentissimo ed efficacissimo tra i rimedi. Dopo aver così pregato, lasciamo, conformemente a quanto convenuto, il seguito del ragionamento a Crizia.
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CRIZIA:
Ebbene, Timeo, accetto; tuttavia la preghiera a cui anche tu all'inizio
facesti ricorso, chiedendo comprensione giacché avresti parlato di grandi
cose, ebbene, Questa stessa preghiera la formulo anch'io adesso, ma chiedo di
ottenere una comprensione ancora maggiore per le cose che stanno per essere
dette. Sebbene io sappia più o meno che la richiesta è molto ambiziosa e che
sto per farla in modo più rozzo di come avrei dovuto, tuttavia devo farla.
Del resto, quale uomo dotato di senno oserebbe affermare che le tue parole non
sono state dette bene? D'altra parte il fatto che ciò che sarà detto ha
bisogno di maggior comprensione in quanto più difficile, questo in qualche
modo bisogna cercare di spiegarlo. Perché, caro Timeo, quando si dice
qualcosa degli dèi agli uomini è più facile dare l'impressione di parlarne
esaurientemente che non quando a noi si parla dei mortali. Infatti
l'inesperienza e la totale ignoranza degli ascoltatori costituiscono un'ampia
risorsa per chi intenda parlare di quelle cose sulle quali chi ascolta si
trova in siffatta condizione: quanto agli dèi poi conosciamo la nostra
situazione. Per chiarire maggiormente ciò che vado dicendo, seguitemi per
questa via. Imitazione e rappresentazione bisogna che in qualche misura siano
i discorsi pronunciati da tutti noi: la riproduzione di immagini fatta dai
pittori, atta a rappresentare i corpi divini e i corpi umani, consideriamola
per la facilità e la difficoltà a sembrare, a coloro che la guardano,
un'imitazione soddisfacente, e riconosceremo che terra e monti e fiumi e
boschi, tutto il cielo e le cose che in esso sono e si muovono in un primo
momento potrebbero soddisfarci, se uno è in grado di riprodurre anche in
piccola parte qualcosa per somiglianza; ma poi, dal momento che di tali cose
non sappiamo nulla di preciso, non esaminiamo né critichiamo le pitture, e ci
serviamo di un chiaroscuro indistinto e ingannevole per questi stessi oggetti;
invece quando uno tenta di rappresentare i nostri corpi, poiché percepiamo
distintamente ciò che viene trascurato, per via della osservazione costante e
familiare, diventiamo giudici terribili di chi non renda in maniera completa
tutte le somiglianze. Questa stessa cosa bisogna notare che avviene anche per
i discorsi, e cioè ci riteniamo soddisfatti se gli argomenti celesti e divini
vengono esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, mentre le cose
mortali e umane le sottoponiamo ad attento esame. Ebbene se, in ciò che
stiamo dicendo ora improvvisando, non saremo capaci di rendere perfettamente
quel che conviene, bisogna avere indulgenza: perché si deve pensare che le
cose mortali non sono facili ma difficili da rappresentare rispetto
all'aspettativa. Ho detto tutto questo, o Socrate, perché volevo ricordarvi
questi fatti, e chiedere un'indulgenza non minore, bensì maggiore per le cose
che stanno per essere dette. Se dunque sembra che a buon diritto io chieda
tale dono, concedetemelo di buon grado. SOCRATE:
Perché, o Crizia, indugiare a concedertelo? Anzi, questo stesso dono sia da
parte nostra concesso anche al terzo, a Ermocrate, è chiaro infatti che tra
poco, quando dovrà a sua volta parlare, ne farà richiesta, come voi; e
dunque per far sì che possa preparare un altro inizio e non sia costretto a
pronunciarne uno uguale, parli convinto di avere, per quel momento, la nostra
indulgenza. Tuttavia, caro Crizia, ti esponga preventivamente il pensiero
dell'uditorio: il poeta che ti ha preceduto gode di una fama straordinaria
presso questo uditorio, cosicché avrai bisogno di una buona dose di
indulgenza, se è tua intenzione poterti procurare questi stessi
riconoscimenti. ERMOCRATE:
Ebbene, o Socrate, tu mi dai lo stesso avvertimento che dai a costui. Ed
effettivamente uomini privi di coraggio non innalzarono mai un trofeo, o
Crizia: bisogna dunque andare avanti coraggiosamente nel discorso, e, rivolta
l'invocazione a Peone e alle Muse, proclamare e celebrare le virtù degli
antichi cittadini. CRIZIA:
Caro Ermocrate, tu sei stato assegnato all'ultima fila e hai un altro davanti
a te, ed è per questo che sei ancora pieno di baldanza. Di che natura sia
dunque questa impresa, presto sarà essa stessa a chiarirtelo: bisogna quindi
prestare ascolto alle tue esortazioni e ai tuoi incoraggiamenti e oltre agli dèi
che tu hai menzionato dobbiamo invocare anche gli altri e soprattutto
Mnemosine. Infatti quello che, per così dire, è l'aspetto più importante
delle nostre parole dipende interamente da questa divinità: se abbiamo
sufficiente memoria e avremo riferito più o meno ciò che sia stato detto dai
sacerdoti e riportato qui da Solone, io sono più o meno sicuro che a questo
uditorio daremo l'impressione di aver svolto adeguatamente i nostri compiti.
Questo dunque è ciò che bisogna fare e non indugiare oltre. Per prima cosa
ricordiamoci che in totale erano novemila anni da quando, come si racconta,
scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne
di Eracle e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra bisogna ora
descriverla compiutamente. A capo degli uni dunque, si diceva, era questa città,
che sostenne la guerra per tutto il tempo, gli altri invece erano sotto il
comando dei re dell'isola di Atlantide, la quale, come dicemmo, era a quel
tempo più grande della Libia e dell'Asia, mentre adesso, sommersa da
terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che
navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va
oltre. Quanto ai numerosi popoli barbari e a tutte le stirpi greche che
esistevano allora, per ciascuna lo sviluppo del discorso nel suo svolgersi
mostrerà ciò che accadde; quanto invece alla stirpe degli Ateniesi di allora
e degli avversari contro i quali guerreggiarono, è necessario innanzi tutto
esporre da principio la potenza di ciascuno e le loro costituzioni. £ tra
questi stessi popoli dobbiamo dare la priorità, nel racconto, a quelli che
abitarono qui. Gli dèi infatti un tempo si divisero a sorte tutta quanta la
terra secondo i luoghi - non per contesa: sarebbe difatti un ragionamento non
giusto pensare che gli dèi ignorino ciò che conviene a ciascuno di loro e
che poi, conoscendo ciò che conviene meglio ad altri, avessero cercato di
procurarselo per se stessi a forza di contese - ottenendo dunque con sorteggi
di giustizia ciò che era loro gradito, prendevano dimora in quelle regioni e,
dopo esservisi stabiliti, come i pastori le greggi, ci allevavano beni propri
e proprie creature, senza usare violenza sul corpo con la forza fisica, come i
pastori che conducono al pascolo le bestie sotto i colpi della sferza, ma nel
modo in cui, in particolare, si tratta un animale docile, guidando da poppa,
attaccandosi all'anima con la persuasione come un timone, secondo il loro
disegno: in questo modo guidavano e governavano tutto il genere umano. Gli dèi,
avendo dunque ottenuto in sorte chi questi luoghi chi altri, li
amministravano. Efesto e Atena, che hanno una natura comune, sia in quanto
fratello e sorella nati dallo stesso padre sia in quanto pervenuti al medesimo
fine per il loro amore della sapienza e dell'arte, così ricevettero entrambi
un unico lotto, questa regione, come congeniale e naturalmente adatta per la
virtù e il pensiero, e avendovi fatto nascere come autoctoni uomini virtuosi, stabilirono nella loro mente l'ordinamento
politico; i loro nomi sono conservati, ma le loro opere a causa delle
distruzioni dei successori e per la lunghezza del tempo trascorso, sono
svanite. Infatti la stirpe che sempre sopravviveva, come si è detto
precedentemente, rimaneva
montanara e illetterata, e conosceva solo per sentito dire i nomi dei signori
di quella regione e, oltre a questi, poche delle loro opere. Essi dunque, si
accontentavano di assegnare questi nomi ai figli, ma ignoravano le virtù e le
leggi dei predecessori, tranne alcune oscure informazioni su ognuno di loro e
trovandosi, essi e i loro figli per molte generazioni, sprovvisti dei beni di
necessità, rivolgendo la mente a ciò di cui mancavano, e a questo dedicando
inoltre i loro discorsi, non si curavano dei fatti avvenuti nei tempi
precedenti e anticamente. Il racconto e la ricerca degli avvenimenti antichi
infatti entrano nelle città insieme con il tempo libero, quando si comincia a
vedere qualcuno già rifornito dei beni necessari per vivere, prima no. Così
i nomi degli antichi si sono conservati, senza il ricordo delle loro opere.
Dico questo basandomi sul fatto che tra le moltissime imprese che appunto si
ricordano associate ai nomi di ciascuno, di Cecrope, Eretteo, Erittonio,
Erisittone e degli altri eroi
anteriori a Teseo, tra queste imprese Solone dice che i sacerdoti, menzionando
per lo più i nomi di quei personaggi, raccontarono la guerra che si combatté
a quel tempo, e allo stesso modo per i nomi delle donne. Quanto poi
all'immagine e alla statua della dea, dal momento che a quel tempo le
occupazioni militari erano comuni sia alle donne sia agli uomini, così,
conformemente a quella consuetudine, essi avevano una statua votiva della dea
armata, prova che tutti gli esseri viventi che vivono associati, femmine e
maschi, sono per natura capaci di esercitare in comune la virtù che compete a
ciascun sesso. A quel tempo dunque abitavano in questa regione le altre classi
di cittadini impegnate nei mestieri e a trarre nutrimento dalla terra, mentre
la classe dei guerrieri, fin dal principio distinta per volere di uomini
divini, viveva separatamente, provvista di tutto ciò che fosse necessario per
il sostentamento e per l'educazione; nessuno di loro possedeva nulla di
proprio, ma consideravano tutto in comune, e non ritenevano giusto accettare
nulla dagli altri cittadini che fosse più del nutrimento sufficiente ed
esercitavano tutte le attività descritte ieri, che sono state menzionate a
proposito dei guardiani che abbiamo ipotizzato. Inoltre la storia che veniva
riportata sulla nostra regione era credibile e vera: per prima cosa, per quel
che concerne i confini a quel tempo arrivavano fino all'Istmo e, nella parte
lungo il resto del continente, fino alle cime del Citerone
e del Parnete, scendevano
poi avendo a destra l'Oropia e a sinistra fino al mare escludendo l'Asopo:
questa nostra regione superava per fertilità tutte le altre, per cui a quel
tempo poteva anche nutrire un grande esercito inoperoso nei lavori dei campi.
Una valida prova del suo valore: ciò che ora resta di essa sostiene il
confronto con qualunque terra, perché produce di tutto, molti frutti e
abbondanti pascoli per tutti gli animali. A quel tempo invece, oltre alla fine
qualità di quei frutti, ne produceva anche in grande abbondanza. Come è
possibile dunque questo e sulla base di quale residuo attuale della terra di
allora può esser detto a ragione? Essa, staccata interamente dal resto del
continente, giace allungandosi fino al mare come la punta di un promontorio;
il bacino di mare che la comprende sprofonda rapidamente da ogni parte.
Essendoci dunque stati molti e terribili cataclismi in questi novemila anni -
perché tanti sono gli anni che intercorrono da quel tempo fino a oggi - la
parte di terra che in questi anni e in tanti accidenti si è staccata dalle
alture non accumulava sedimenti di terra di una certa consistenza, come in
altri luoghi e, scivolando giù in un processo continuo tutt'intorno,
scompariva nella profondità del mare; dunque, come avviene nelle piccole
isole, a confronto con ciò che c'era a quel tempo, le parti che oggi restano
sono come ossa di un corpo che è stato colpito da una malattia, perché la
terra intorno, ciò che di essa era grasso e molle, è scivolata via, ed è
rimasto soltanto, della regione, l'esile corpo. A quel tempo invece, quando
era integra, aveva per monti colline e levate e ricche di terra grassa, le
pianure oggi dette di Felleo, e sui monti aveva vasti boschi, dei quali
sussistono testimonianze visibili ancora oggi. E di quei monti ve ne sono
alcuni che attualmente forniscono nutrimento soltanto alle api, ma non è poi
moltissimo tempo che, ricavati dagli alberi tagliati via da qui per fare da
riparo in costruzioni imponenti, si conservavano ancora i tetti. Vi
crescevano, numerosi, alti alberi coltivati, ma fornivano anche pascoli
inesauribili per il bestiame. Inoltre ogni anno godeva dell'acqua che veniva
da Zeus, e non la perdeva, come avviene ai nostri giorni, quando scompare
defluendo via dalla terra spoglia fino al mare; poiché ne aveva in abbondanza
la accoglieva nel suo seno, la teneva in serbo nella terra argillosa e
impermeabile, lasciando poi cadere l'acqua dall'alto dalle alture fino alle
cavità, offriva dappertutto abbondante flusso di sorgenti e di fiumi, e i
santuari che ancora oggi rimangono presso le sorgenti che esistevano un tempo
sono una testimonianza del fatto che i racconti odierni su di essa
corrispondono a verità. Queste dunque le condizioni naturali del resto del
paese. E, come conviene, era tenuta in bell'ordine, da veri agricoltori, che
facevano proprio questo mestiere, amanti del bello e dotati di buone qualità,
disponevano di terra eccellente, acqua in notevole abbondanza e, su quella
terra, godevano di stagioni decisamente temperate. Ed ecco come era abitata a
quel tempo la città. Innanzi tutto la parte dell'acropoli non era allora come
è oggi. Ci fu infatti una sola notte di pioggia, in cui piovve più di quanto
la terra potesse sopportare, che l'ha liquefatta tutt'intorno e resa oggi
terribilmente spoglia, e nello stesso tempo vi furono terremoti e una
straordinaria alluvione, la terza prima della catastrofe di Deucalione; ma
precedentemente, in un altro tempo, per grandezza si estendeva fino
all'Elidano e all'llisso, abbracciava al suo interno la Pnice e comprendeva,
dalla parte opposta rispetto alla Pnice, il monte Licabetto, ed era tutta di
terra e, salvo che in un piccolo tratto sulla sommità, pianeggiante. Le zone
periferiche, sotto i fianchi stessi dell'Acropoli, erano abitate dagli
artigiani e dagli agricoltori che lavoravano la terra circostante; la zona
superiore la abitava, intorno al santuario di Atena e di Efesto, la sola
classe dei guerrieri, i quali l'avevano circondata da un muro come il giardino
di un'unica dimora. Abitavano i fianchi di questa rivolti a settentrione, in
dimore comuni. Vi avevano allestito mense per i mesi invernali; tutto ciò che
si addiceva alla vita in comune, per le loro costruzioni e per i santuari,
essi lo possedevano, fatta eccezione per l'oro e l'argento - di questi metalli
infatti non facevano assolutamente uso, e perseguivano piuttosto una via di
mezzo tra sfarzo arrogante e illiberale spilorceria, abitando case dignitose,
nelle quali essi stessi e i figli dei loro figli invecchiavano e che
lasciavano via via in eredità ad altri uguali a loro, i fianchi esposti a sud
invece, quando abbandonavano giardini, ginnasi e mense, ad esempio durante la
stagione estiva, li utilizzavano per questi scopi. C'era una sola fonte, nel
luogo dove oggi è l'acropoli, della quale, inaridita a causa dei terremoti,
restano attualmente piccoli rivoli tutt'intorno, e che invece agli uomini di
quel tempo forniva, a tutti, un flusso abbondante, ed era temperata sia in
inverno sia in estate. Questo dunque il modo in cui abitavano la città,
fungendo da custodi dei loro propri concittadini e d'altra parte da capi,
liberamente accolti, degli altri Greci, sempre però vegliando che al loro
interno fosse quanto più possibile lo stesso in tutti i tempi il numero degli
uomini e delle donne, di quelli già in grado di combattere e di quelli che lo
fossero ancora, circa ventimila al massimo. Tali dunque essendo questi uomini
e in tal modo sempre amministrando secondo giustizia la propria città e la
Grecia, erano stimati in tutta l'Europa e in tutta l'Asia per la bellezza del
corpo e per ogni tipo dì virtù dell'animo, ed erano fra tutti gli uomini del
loro tempo i più famosi. Quanto poi ai loro avversari, quali fossero le loro
condizioni e come andassero le cose in origine, se in noi non è spento il
ricordo di ciò che udimmo quando eravamo ancora bambini, ve lo spiegheremo: e
ciò che sappiamo sia in comune con
gli amici, è d'uopo tuttavia, prima di iniziare il discorso, fornire ancora
una breve chiarificazione, perché non vi sorprendiate di sentire pronunciare
nomi greci per uomini barbari: ne apprenderete la causa. Solone, poiché aveva
in mente di usare questo racconto per la sua poesia, cercando informazioni sul
senso di questi nomi, trovò che quegli Egiziani che per primi avevano scritto
questi nomi, li avevano tradotti nella propria lingua, e di nuovo egli, a sua
volta, recuperando il significato di ciascun nome, li trascrisse trasferendoli
nella nostra lingua. E questi scritti appunto si trovavano in possesso di mio
nonno, attualmente sono ancora in mio possesso, e me ne sono molto occupato
quando ero un ragazzo. Se dunque udrete tali nomi, simili a questi nostri, non
vi sembri strano: ne conoscete la ragione. Ed ecco dunque qual era pressappoco
l'inizio di questo lungo racconto. Come si è detto prima, a proposito del
sorteggio degli dèi, che si spartirono tutta la terra, in lotti dove più
grandi dove più piccoli, e istituirono in proprio onore offerte e sacrifici,
così anche Poseidone, che aveva ricevuto in sorte l'isola di Atlantide,
stabilì i propri figli, generati da una donna mortale, in un certo luogo
dell'isola. Vicino al mare, ma nella parte centrale dell'intera isola, c'era
una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e garanzia di prosperità,
vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa
cinquanta stadi, c'era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato. Questo
monte era abitato da uno degli uomini nati qui in origine dalla terra, il cui
nome era Euenore e che abitava lì insieme a una donna, Leucippe. Generarono
un'unica figlia, Clito. La fanciulla era ormai in età da marito, quando la
madre e il padre morirono. Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, sì
unì con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la
fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e di terra,
alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di
terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio, a partire dal centro
dell'isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l'isola fosse
inaccessibile agli uomini: a quel tempo infatti non esistevano né
imbarcazioni né navigazione. Egli stesso poi abbellì facilmente, come può
un dio, l'isola nella sua parte centrale, facendo scaturire dalla terra due
sorgenti di acqua, una che sgorgava calda dalla fonte, l'altra fredda; fece
poi produrre dalla terra nutrimento d'ogni sorta e in abbondanza. Generò
cinque coppie di figli maschi, li allevò e dopo aver diviso in dieci parti
tutta l'isola di Atlantide, al figlio nato per primo dei due più vecchi
assegnò la dimora della madre e il lotto circostante, che era il più esteso
e il migliore, e lo fece re degli altri, gli altri li fece capi e a ciascuno
diede potere su un gran numero di uomini e su un vasto territorio. Diede a
tutti dei nomi, a colui che era il più anziano e re assegnò questo nome, che
è poi quello che ha tutta l'isola e il mare, chiamato Atlantico perché il
nome di colui che per primo regnò allora era appunto Atlante; il fratello
gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l'estremità dell'isola
verso le Colonne di Eracle, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica dal
nome di quella località, in greco era Eumelo, mentre nella lingua del luogo
Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la denominazione a questa regione.
Ai due figli che nacquero nel secondo parto Poseidone diede, al primo, il nome
Amfere e al secondo il nome Euemone; ai figli di terza nascita diede nome
Mnesea, a quello nato per primo, Autoctone a quello nato dopo; dei figli di
quarta nascita Elasippo fu il primo e Mestore il secondo; ai figli di quinta
nascita fu dato il nome di Azae al primo, di Diaprepe al secondo. Tutti
costoro, essi stessi e i loro discendenti, per molte generazioni abitarono
qui, esercitando il comando su molte altre isole di quel mare, ed inoltre,
come si disse anche prima, governando regioni al di qua, fino all'Egitto e
alla Tirrenia. La stirpe di Atlante dunque fu numerosa e onorata, e poiché
era sempre il re più vecchio a trasmettere al più vecchio dei suoi figli il
potere, preservarono il regno per molte generazioni, acquistando ricchezze in
quantità tale quante mai ve n'erano state prima in nessun dominio di re, né
mai facilmente ve ne saranno in avvenire, e d'altra parte potendo disporre di
tutto ciò di cui fosse necessario disporre nella città e nel resto del
paese. Infatti molte risorse, grazie al loro predominio, provenivano loro
dall'esterno, ma la maggior parte le offriva l'isola stessa per le necessità
della vita: in primo luogo tutti i metalli, allo stato solido o fuso, che
vengono estratti dalle miniere, sia quello del quale oggi si conosce solo il
nome - a quel tempo invece la sostanza era più di un nome, l'oricalco,
estratto dalla terra in molti luoghi dell'isola, ed era il più prezioso, a
parte l'oro, tra i metalli che esistevano allora - sia tutto ciò che le
foreste offrono per i lavori dei carpentieri: tutto produceva in abbondanza, e
nutriva poi a sufficienza animali domestici e selvaggi. In particolare era qui
ben rappresentata la specie degli elefanti. Difatti i pascoli per gli altri
animali, per quelli che vivono nelle paludi, nei laghi e nei fiumi e così per
quelli che pascolano sui monti e nelle pianure, erano per tutti abbondanti e
altrettanto Io erano per questo animale, nonostante sia il più grosso e il più
vorace. A ciò si aggiunga che le essenze profumate che la terra produce ai
nostri giorni, di radici, di germoglio, di legni, di succhi trasudanti da
fiori o da frutti, le produceva tutte e le faceva crescere bene; e ancora,
forniva il frutto coltivato e quello secco che ci fa da nutrimento e quei frutti dei quali ci serviamo
per fare il pane - tutte quante le specie di questo prodotto le chiamiamo
cereali - e il frutto legnoso che offre bevande, alimenti e oli profumati, il
frutto dalla dura scorza, usato per divertimento e per piacere, difficile da
conservare, così quelli che
serviamo dopo la cena come rimedi graditi a chi è affaticato dalla sazietà:
tali prodotti l'isola sacra che esisteva allora sotto il sole, offriva, belli
e meravigliosi, in una abbondanza senza fine. Prendendo dunque dalla terra
tutte queste ricchezze, costruivano i templi, le dimore regali, i porti, i
cantieri navali e il resto della regione, ordinando ogni cosa nel seguente
modo. Le cinte di mare che si trovavano intorno all'antica metropoli per prima
cosa le resero praticabili per mezzo di ponti, formando una via all'esterno e
verso il palazzo reale. Il palazzo reale lo realizzarono fin da principio in
questa stessa residenza del dio e degli antenati, ricevendolo in eredità
l'uno dall'altro, e aggiungendo ornamenti a ornamenti cercavano sempre di
superare, per quanto potevano, il predecessore, finché realizzarono una
dimora straordinaria a vedersi per la grandiosità e la bellezza dei lavori.
Realizzarono, partendo dal mare, un canale di collegamento largo tre plettri,
profondo cento piedi e lungo cinquanta stadi fino alla cinta di mare più
esterna: crearono così il passaggio dal mare fino a quella cinta, come in un
porto, dopo aver formato un'imboccatura sufficiente per l'ingresso delle navi
di maggiori dimensioni. Inoltre tagliarono le cinte di terra che dividevano
tra loro le cinte di mare all'altezza dei ponti, tanto da poter passare, a
bordo di una sola trireme, da una cinta all'altra, e coprirono i passaggi con
tetti, in modo tale che la navigazione avvenisse al di sotto: e infatti le
sponde delle cinte di terra si elevavano sufficientemente sul livello del
mare. La cinta maggiore, con la quale era in comunicazione il mare, era di tre
stadi di larghezza e di pari larghezza era la cinta di terra a ridosso; delle
due cinte successive quella di mare era larga due stadi, quella di terra aveva
ancora una volta una larghezza pari alla cinta di mare; di uno stadio era
invece la cinta di mare che correva intorno all'isola stessa, nel mezzo.
L'isola, nella quale si trovava la dimora dei re, aveva un diametro di cinque
stadi. Questa, tutt'intorno, e le cinte, e il ponte, largo un plettro, li
circondarono da una parte e dall'altra con un muro di pietra, facendo
sovrastare il ponte, da entrambe le parti, da torri e porte, lungo i passaggi
che portavano al mare; tagliarono la pietra tutt'intorno, al di sotto
dell'isola centrale, e sotto le cinte, nella parte esterna e in quella
interna, bianca, nera, rossa, e mentre tagliavano creavano all'interno due
profondi arsenali la cui copertura era di quella stessa pietra. Quanto alle
costruzioni, alcune erano semplici, mentre altre le realizzavano variopinte,
mescolando, per il piacere della vista, le pietre: e così rendevano loro una
grazia naturale; rivestirono tutto il perimetro del muro che correva lungo la
cinta esterna con il bronzo, servendosene a guisa di intonaco, mentre quello
della cinta interna lo spalmarono con stagno fuso, e infine quello che
circondava la stessa acropoli con oricalco dai riflessi di fuoco. Il palazzo
reale, all'interno dell'acropoli, era sistemato nel seguente modo. Al centro
il santuario, consacrato in quello stesso luogo a Clito e a Poseidone, era
lasciato inaccessibile, circondato da un muro d'oro, e fu là che in origine
concepirono e misero al mondo la stirpe dei dieci capi delle dinastie reali;
ed era ancora là che ogni anno venivano, da tutte e dieci le sedi del paese,
le offerte stagionali per ognuno di quelle divinità. Il tempio dello stesso
Poseidone era lungo uno stadio, largo tre plettri, proporzionato in altezza a
queste dimensioni, e aveva nella figura un che di barbarico. Rivestirono
d'argento tutta la parte esterna del tempio, ad eccezione degli acroterii, e
gli acroterii erano d'oro; quanto agli interni, il soffitto era a vedersi
interamente d'avorio, variegato d'oro, argento e oricalco; tutte le altre
parti, pareti, colonne e pavimento, le rivestirono di oricalco. Vi collocarono
statue d'oro, il dio in piedi su un carro, auriga di sei cavalli alati, egli
stesso tanto grande da toccare con la testa il soffitto del tempio,
tutt'intorno cento Nereidi su
delfini perché tante pensavano
allora che fossero le Nereidi - e vi erano molte altre statue, doni votivi di
privati. Intorno al santuario, all'esterno, si trovavano immagini d'oro di
tutti, le donne e quei re che nacquero dai dieci, e molte altre offerte votive
di grandi dimensioni, di re e privati, originari della città stessa e di
altri paesi esterni, quelli sui quali governavano. L'altare, per la grandezza
e la raffinatezza del lavoro, era in armonia con questo apparato, e la reggia,
allo stesso modo, ben rispondeva da una parte alla grandezza dell'impero,
dall'altra allo splendore del tempio stesso. Quanto alle fonti, quella della
sorgente di acqua fredda e quella della sorgente di acqua calda, di generosa
abbondanza, ognuna straordinariamente adatta all'uso per la gradevolezza e la
virtù delle acque, le utilizzavano disponendo intorno abitazioni e
piantagioni di alberi adatte a quelle acque e installandovi intorno cisterne,
alcune a cielo aperto, altre coperte usate in inverno per i bagni caldi, da
una parte quelle del re, dall'altra quelle dei privati, altre ancora per le
donne, altre per i cavalli e per le altre bestie da soma, attribuendo a
ciascuna la decorazione appropriata. L'acqua che sgorgava da qui la portavano
fino al bosco sacro di Poseidone, alberi d'ogni sorta, che avevano, grazie
alla virtù della terra, bellezza ed altezza straordinarie, e facevano
scorrere l'acqua fino ai cerchi esterni attraverso canalizzazioni costruite
lungo i ponti. E qui erano stati costruiti molti templi, in onore di molte
divinità, molti giardini e molti ginnasi, alcuni per gli uomini, altri per i
cavalli, a parte, in ognuna delle due isole circolari. Inoltre, al centro
dell'isola maggiore, per sé si erano riservati un ippodromo, largo uno stadio
e tanto lungo da permettere ai cavalli di percorrere per la gara l'intera
circonferenza. Intorno a questo, dall'una e dall'altra parte, vi erano
costruzioni per le guardie, per la gran massa dei dorifori; ai più fedeli era
stato assegnato il presidio nella cerchia minore, che si trovava più vicino
all'acropoli, mentre a coloro che fra tutti si distinguevano per fedeltà
erano stati dati alloggi all'interno dell'acropoli, vicino ai re. Gli arsenali
erano pieni di trireme e delle suppellettili necessari alle trireme, tutte
preparate in quantità sufficiente. E nel modo seguente erano poi sistemate le
cose intorno alla residenza dei re: per chi attraversava i porti esterni, in
numero di tre, a partire dal mare correva in cerchio un muro, distante
cinquanta stadi in ogni parte dalla cinta maggiore e dal porto. Tale muro si
chiudeva in se stesso in uno stesso punto, presso l'imboccatura del canale
dalla parte del mare. Tutta questa estensione era coperta di numerose e fitte
abitazioni, mentre il canale e il porto maggiore pullulavano di imbarcazioni e
di mercanti che giungevano da ogni parte e che, per il gran numero,
riversavano giorno e notte voci e tumulto e fragore d'ogni genere. Abbiamo
dunque riferito ora pressappoco quanto a quel tempo si disse della città e
dell'antica dimora; cerchiamo allora di richiamare alla mente quale fosse la
natura del resto del paese e come fosse organizzato. In primo luogo tutto
quanto il territorio si diceva che fosse alto e a picco sul mare, mentre
tutt'intorno alla città vi era una pianura, che abbracciava la città ed era
essa stessa circondata da monti che discendevano fino al mare, piana e
uniforme, tutta allungata, lunga tremila stadi sui due lati e al centro
duemila stadi dal mare fin giù. Questa parte dell'intera isola era rivolta a
mezzogiorno e al riparo dai venti del nord. I monti che la circondavano erano
rinomati a quel tempo, in numero, grandezza e bellezza superiori ai monti che
esistono oggi, per i molti villaggi ricchi di abitanti che vi si trovano e
d'altra parte per i fiumi, i laghi, i prati, capaci di nutrire ogni sorta di
animali domestici e selvaggi, per le foreste numerose e varie, inesauribili
per l'insieme dei lavori e per ciascuno in particolare. Questa pianura in un
lungo lasso di tempo, per opera della natura e di molti re, prese dunque la
seguente sistemazione. Aveva, come ho già detto, la forma di un quadrilatero,
rettilineo per la maggior parte, e allungato, ma là dove si discostava dalla
linea retta Io raddrizzarono per mezzo di un fossato scavato tutt'intorno: ciò
che si dice della profondità, larghezza e lunghezza di questo fossato non è
credibile, che cioè opera realizzata dalla mano dell'uomo potesse essere di
tali dimensioni, oltre agli altri duri lavori che aveva comportato. Bisogna
tuttavia riferire ciò che udimmo: ebbene, era stata scavata per una profondità
di un plettro, mentre la sua larghezza era in ogni punto di uno stadio, e
poiché era stata scavata tutto intorno alla pianura, ne risultava una
lunghezza di diecimila stadi. Riceveva i corsi d'acqua che discendevano dai
monti e girava intorno alla pianura, arrivando da entrambi i lati fino alla
città, da lì poi andava a gettarsi nel mare. Dalla parte superiore di questo
fossato canali rettilinei, larghi circa cento piedi, tagliati attraverso la
pianura, tornavano a gettarsi nel fossato presso il mare, a una distanza l'uno
dall'altro di cento stadi. Ed era per questa via dunque che facevano scendere
fino alla città il legname dalle montagne e su imbarcazioni trasportavano
verso la costa altri prodotti di stagione, scavando, a partire da questi
canali passaggi navigabili e tagliandoli trasversalmente l'uno con l'altro e
rispetto alla città. Due volte l'anno raccoglievano i prodotti della terra,
in inverno utilizzando le piogge, in estate irrigando tutto ciò che offre la
terra con l'acqua attinta dai canali. Quanto al numero degli uomini abitanti
la pianura che fossero utili per la guerra, era stato stabilito che ogni lotto
fornisse un capo: la grandezza di un lotto era di dieci stadi per dieci e in
tutto i lotti erano sessantamila; per quel che concerne invece il numero degli
uomini che venivano dalle montagne e dal resto del paese, si diceva che fosse
infinito e tutti, secondo le località e i villaggi, venivano poi ripartiti in
questi distretti, sotto il comando dei loro capi. Era dunque stabilito che il
comandante fornisse per la guerra la sesta parte di un carro da combattimento
fino a raggiungere il numero di diecimila carri, due cavalli e i relativi
cavalieri, inoltre un carro a due cavalli senza sedile, che avesse un soldato
capace all'occasione di combattere a piedi, munito di un piccolo scudo, e
assieme al combattente un auriga per entrambi i cavalli; due opliti, due
arcieri e due frombolieri, tre soldati armati alla leggera che lanciano pietre
e tre lanciatori di giavellotto, quattro marinai per completare l'equipaggio
di milleduecento navi. Questa era dunque l'organizzazione militare della città
regia; diversa invece quella in ognuna delle altre nove province, che tuttavia
sarebbe troppo lungo spiegare. Quanto alle magistrature e alle cariche
pubbliche, furono così ordinate fin da principio. Ciascuno dei dieci re
esercitava il comando nella propria parte e nella sua città sugli uomini e
sulla maggior parte delle leggi, punendo e mettendo a morte chiunque volesse;
ma il potere che avevano l'uno sull'altro e i rapporti reciproci erano
regolati dalle prescrizioni di Poseidone, così come li avevano tramandati la
tradizione e le lettere incise dai primi re su una stele di oricalco, che era
posta nel centro dell'isola, nel santuario di Poseidone, dove ogni cinque anni
e talvolta, alternando, ogni sei si riunivano, assegnando uguale importanza
all'anno pari e all'anno dispari. In tali adunanze deliberavano degli affari
comuni, esaminavano se qualcuno avesse trasgredito qualche legge e formulavano
il giudizio. Quando dovevano giudicare, prima si scambiavano tra loro
assicurazioni secondo il seguente rituale. Alcuni tori (50) venivano lasciati
liberi nel santuario di Poseidone, e i dieci re, rimasti soli, dopo aver
rivolto al dio la preghiera di scegliere la vittima che gli fosse gradita,
davano inizio alla caccia, armati non di armi di ferro, ma solo di bastoni e
di lacci; il toro che riuscivano a catturare, lo conducevano davanti alla
colonna e lì, sulla cima di questa, lo sgozzavano proprio sopra l'iscrizione.
Sulla stele, oltre alle leggi, v'era inciso un giuramento che lanciava
terribili anatemi contro i trasgressori. Così, compiuti i sacrifici
conformemente alle loro leggi, quando passavano a consacrare tutte le parti
del toro, mescolavano in un cratere il sangue e ne versavano un grumo per
ciascuno, mentre il resto, purificata la stele, lo ponevano accanto al fuoco;
dopodiché, attingendo con coppe d'oro dal cratere e offrendo libagioni sul
fuoco, giuravano di giudicare conformemente alle leggi scritte sulla stele, di
punire chi in precedenza tali leggi avesse trasgredito e, d'altra parte, di
non trasgredire per precisa volontà in avvenire nessuna delle norme
dell'iscrizione, che non avrebbero governato né obbedito a chi governasse se
non esercitava il suo comando secondo le leggi del padre. Ciascuno di loro,
dopo aver innalzato queste preghiere, per sé e per la propria discendenza,
beveva e consacrava la coppa nel santuario del dio, poi attendeva al pranzo e
alle occupazioni necessaire, e quando scendevano le tenebre e il fuoco dei
sacrifici si era consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella
quant'altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici per il
giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era
completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di loro avesse
accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio,
all'apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d'oro che
dedicavano in ricordo insieme alle vesti. Vi erano altre leggi, numerose e
particolari, che concernevano i privilegi di ciascun re, tra le quali le più
importanti: che non avrebbero mai impugnato le armi l'uno contro l'altro e che
si sarebbero aiutati vicendevolmente, e se uno di loro in qualche città
tentava di cacciare la stirpe regia, avrebbero deliberato in comune, come i
loro antenati, le decisioni che giudicassero opportuno prendere riguardo alla
guerra e alle altre faccende, affidando il comando supremo alla stirpe di
Atlante. Un re non era padrone di condannare a morte nessuno dei consanguinei
senza il consenso di più della metà dei dieci. Tanta e tale potenza, viva
allora in quei luoghi, il dio raccolse e diresse poi contro queste nostre
regioni, dietro siffatto pretesto, come vuole la tradizione. Per molte
generazioni, finché fu abbastanza forte in loro la natura divina, erano
obbedienti alle leggi e bendisposti nell'animo verso la divinità che aveva
con loro comunanza di stirpe: avevano infatti pensieri veri e grandi in tutto,
usando mitezza mista a saggezza negli eventi che di volta in volta si
presentavano e nei rapporti reciproci. Di conseguenza, avendo tutto a disdegno
fuorché la virtù, Stimavano poca cosa i beni che avevano a disposizione,
sopportavano con serenità, quasi fosse un peso, la massa di oro e delle altre
ricchezze, e non vacillavano, ebbri per effetto del lusso e senza più
padronanza di sé per via della ricchezza; al contrario, rimanendo vigili,
vedevano con acutezza che tutti questi beni si accrescono con l'affetto
reciproco unito alla virtù, mentre si logorano per eccessivo zelo e stima e
con loro perisce anche la virtù. Ebbene, come risultato di un tale
ragionamento e finché persisteva in loro la natura divina, tutti i beni che
abbiamo precedentemente enumerato si accrebbero. Quando però la parte di
divino venne estinguendosi in loro, mescolata più volte con un forte elemento
di mortalità e il carattere umano ebbe il sopravvento, allora, ormai incapaci
di sostenere adeguatamente il carico del benessere di cui disponevano, si
diedero a comportamenti sconvenienti, e a chi era capace di vedere apparivano
laidi, perché avevano perduto i più belli tra i beni più preziosi, mentre
agli occhi di coloro che non avevano la capacità di discernere la vera vita
che porta alla felicità allora soprattutto apparivano bellissimi e beati,
pieni di ingiusta bramosia e di potenza. Tuttavia il dio degli dèi, Zeus, che
governa secondo le leggi, poiché poteva vedere simili cose, avendo compreso
che questa stirpe giusta stava degenerando verso uno stato miserevole, volendo
punirli, affinché, ricondotti alla ragione, divenissero più moderati, convocò
tutti gli dèi nella loro più augusta dimora, la quale, al centro dell'intero
universo, vede tutte le cose che partecipano del divenire, e dopo averli
convocati disse... |
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BY ANTONIO SOLDANI